Il 23 settembre si celebra la Giornata Mondiale dell’Orgoglio Bisessuale e questa data è stata scelta dall’International Lesbian and Gay Association. La creazione del “Bisexual Forum” a New York nel 1975 segnò un momento di aggregazione cruciale, un primo spazio in cui le persone bisessuali poterono confrontarsi e articolare una narrativa propria. Tuttavia, questa emergenza identitaria si scontrava con una resistenza tanto esterna quanto interna: se da un lato la società eteronormativa continuava a considerare la bisessualità con sospetto o disprezzo, dall’altro anche dentro il movimento Lgbtqia+ non mancarono voci critiche, che la percepivano come ambigua o, peggio, come una forma di codardia politica, lontana dall’assoluta presa di posizione rappresentata dall’omosessualità. Atteggiamento che purtroppo, persiste ancora oggi. Durante la Conferenza sulla Bisessualità di San Francisco del 1990, venne coniato il termine bifobia, un concetto destinato a cristallizzare le dinamiche di marginalizzazione specifiche a cui erano sottoposte le persone bisessuali, spesso in bilico tra due mondi che le negano o le consideravano come una minaccia all’ordine binario. Questa nuova consapevolezza diede avvio a un percorso di autoaffermazione che portò, nel 1999, alla nascita del Celebrate Bisexuality Day, ricorrenza annuale fissata al 23 settembre, giorno in cui si sarebbe cominciato a rendere omaggio alle persone bisessuali, alla loro storia e al loro contributo nella lotta per i diritti civili. La bandiera bisessuale risale invece al 1998 ed è stata realizzata da Michael Page. La bandiera è composta da tre righe di differenti colori: in alto il rosa, in basso il blu, al centro il viola, creato dall’unione degli altri due colori. Per Page il rosa simboleggia l’orientamento omosessuale, il blu rappresenta l’orientamento eterosessuale e il viola, infine, è la fusione tra rosa e viola e dunque tra i due orientamenti sessuali. La bisessualità è stata osservata nel corso di tutta la storia umana e nel susseguirsi delle varie civiltà, assumendo valenze e significati differenti in base alle specifiche culture e alle epoche storiche. Nella cultura greca antica le relazioni sessuali non erano incasellate in rapporti monogami o strettamente eterosessuali. Gli uomini potevano aver contratto matrimonio con una donna e allo stesso tempo avere relazioni extraconiugali con altre donne così come con uomini. Anche nella cultura romana le relazioni sessuali non erano codificate solo come etrerosessuali o omosesessuali, era solo una questione di potere ovvero, un uomo libero era sicuramene sposato, dato che il valore della famiglia era sacro, ma poteva avere rapporti sessuali o intrattenere relazioni sia con uomini o con donne a patto che questi fossero schiavi o prostitute. Era socialmente inaccettabile e punito chi avesse rapporti sessuali con un altro uomo libero. In questo caso la bisessualità era sì accettata ma solo se si assumeva un ruolo “attivo” e questo era visto come una manifestazione di potere. Il primo a parlare di un continuum, o di fluidità, in ambito sessuale fu Alfred Kinsey, biologo e sessuologo statunitense, che condusse innumerevoli studi volti ad indagare il comportamento sessuale umano, pubblicati tra il 1948 ed il 1953 in due volumi denominati popolarmente Rapporti Kinsey. Vivere il proprio orientamento sessuale in modo libero e consapevole è una possibilità che purtroppo non può ancora essere data per scontata. Esistono infatti varie forme di discriminazione ai danni di individui bisessuali, compresa la negazione stessa dell’esistenza della bisessualità. Oggi il concetto di bisessualità si colloca al centro di riflessioni più ampie sulle dinamiche di potere, visibilità e riconoscimento, rendendola una parte vitale del discorso contemporaneo sulla sessualità e sull’identità: stiamo parlando di un orientamento sessuale caratterizzato dall’attrazione, sia romantica che sessuale, verso più di un genere ma non tutti – quest’ultima è la differenza cardine con la pansessualità. A differenza delle definizioni più rigide che si sono sviluppate nel corso del tempo, la bisessualità non implica necessariamente un’attrazione uguale verso i generi, ma piuttosto una flessibilità nell’esperienza affettiva e sessuale. Dove esiste un orientamento sessuale non conforme, purtroppo, esiste però anche la tendenza a stigmatizzare. In questo caso, parliamo di bifobia, insidiosa forma di discriminazione frutto di stereotipi e pregiudizi tanto radicati quanto sottili. La bifobia opera in modo più ambiguo rispetto ad altre attitudini simili, cercando di erodere la legittimità stessa. Si manifesta spesso con l’incredulità, la svalutazione o, ancor peggio, con l’invisibilizzazione, come se l’attrazione per più generi non fosse altro che un errore di percorso o una fase di passaggio tra l’eterosessualità e l’omosessualità. Sostenuta da un substrato di sospetti e accuse implicite, la bifobia vede le persone bisessuali come ambigu*, indécis*, addirittura incapaci di vera fedeltà emotiva o sessuale. L’attrazione viene ridotta a una sorta di pulsione primordiale, a un’incapacità di contenere desideri multipli, quasi fossero per natura inclini alla promiscuità. Questa visione tanto radicata quanto perversa presuppone che la bisessualità sia sinonimo di disordine e di una frattura nell’ordinata binarietà dei desideri. Contrastare la bifobia, in questo senso, significa decostruire le sovrastrutture concettuali che riducono il desiderio a rigide categorie. Significa restituire visibilità e dignità a una parte della comunità Lgbtqia che troppo spesso è stata lasciata ai margini, fraintesa o, peggio, ridotta a un’invenzione temporanea, per cogliere la meravigliosa essenza di una sessualità che non ha bisogno di conformarsi per esistere.
Carlo Scovino e Marcello Libriani
Eravamo tra i 20mila del Toscana Pride, sabato 7 settembre. Fra quei ventimila c'era anche Polis Aperta, con il nostro striscione e con i nostri corpi "indomitə e fierə” liberi e libere di essere noi e di rivendicare questa libertà anche all'interno del nostro posto di lavoro. Liberi e libere di essere noi con la divisa che portiamo perché consapevoli di rappresentare nel profondo i valori costituzionali di pluralismo e democrazia. Un grande ringraziamento va all'organizzazione del Toscana Pride per aver creduto nelle soggettività plurali del movimento senza mai arretrare di un passo. E' stata una bellissima esperienza, grazie soprattutto alle persone che vedendoci passare ci hanno applaudito e sostenuto: noi abbiamo rotto il silenzio ma i cambiamenti reali che vogliamo da questa società si raggiungono solo camminando insieme
Il Pride month è iniziato, Polis Aperta parteciperà alla sfilata di Roma nel segno del rispetto e dell’inclusione per non smettere mai di lottare per una pari dignità sociale di tuttə le persone
Le dichiarazioni di Riccardo Saccotelli, apparse sulle pagine di Sindacato dei Militari demoliscono la narrazione strumentalizzata, di chi vorrebbe dipingere tutti gli appartenenti a Esercito e Corpi di Polizia come omofobi e propagatori della cultura patriarcale della prevaricazione. Saccotelli carabiniere in congedo, ferito durante l’attentato a Nassiriya che il 12 novembre del 2003 costò la vita a 28 persone tra cui numerosi militari italiani, si è esposto pubblicamente criticando le prese di posizione di alcuni soggetti che, nonostante la presa di distanza dell’Esercito italiano e i provvedimenti di sospensione, nascondendosi dietro gradi e divise vorrebbero ridefinire i criteri di “normalità” spacciando discutibili e antiscientifiche opinioni personali, palesemente in contrasto con i principi Costituzionali, per “verità”.
“Le recenti dichiarazioni del generale Vannacci – ha dichiarato Saccotelli - con cui esterna i suoi singolari criteri di normalità, appaiono estremamente gravi ove si consideri che colpiscono anche la comunità Lgbt presente nelle Forze armate e nelle Forze di polizia. Comunità che è una realtà innegabile, in cui l’essere omosessuali non è mai stato un impedimento per chi, come me, porta sul suo corpo le cicatrici del servizio reso per difendere la Patria e affermare quei principi di democrazia e civiltà che permettono oggi a chiunque di poter manifestare liberamente il proprio pensiero nel rispetto dell’altro”.
(fonte:https://lnx.sindacatodeimilitari.org/riccardo-saccotelli-io-carabiniere-omosessuale-ho-difeso-la-patria-come-vannacci/)
La società italiana è in continua evoluzione e, con essa, anche gli enti che compongono lo Stato e i lavoratori in divisa che ne fanno parte. L’attenzione alle tematiche riguardanti il rispetto delle minoranze, i diritti civili e il gender gap, tutti principi contenuti nella Costituzione Italiana che militari e poliziotti hanno giurato di difendere, ha scatenato il dibattito tra chi si fa portavoce del diritto all’autodeterminazione e una minoranza di soggetti che vorrebbero riportare le lancette dell’orologio indietro di 70 anni diffondendo preconcetti da bar senza alcun fondamento scientifico.
Ebbene Polis Aperta è convinta che il cambiamento in atto non possa essere fermato con meschine strumentalizzazioni. Dentro e fuori le istituzioni i principi di democrazia, pluralità e autodeteminazione non saranno silenziati dalle narrazioni fallaci dei pochi che non riescono a fare i conti con il presente.
L’unico atteggiamento criminale fino ad oggi dimostrato, e scritto nero su bianco da una sentenza del Tar del Piemonte, è quello delle istituzioni che hanno preteso una verifica sull’orientamento sessuale di un lavoratore. Ed è un bene che lo Stato ora debba rispondere anche economicamente di questa palese discriminazione, anche se nessuna somma in denaro potrà mai risarcire la sofferenza psichica e fisica patita da chi si è trovato a lavorare in un ambiente ostile. Al di là della vicenda lavorativa e delle contestazioni disciplinari sull’operato dell’agente, chiarite, come prevede la legge, da un procedimento interno al Corpo e finite, come si legge nella sentenza del tribunale amministrativo piemontese in un nulla di fatto, cercare di mettere in connessione l’idoneità lavorativa con l’orientamento sessuale è una inaccettabile violazione del diritto dei lavoratori di qualunque settore. Un “atto arbitrario e privo di un valido supporto giuridico, oltreché tecnico-scientifico” come riporta la stressa sentenza del Tar, un atto che macchia la divisa che portiamo proprio perché arriva da quello Stato che serviamo e che dovrebbe considerarci tutte persone con pari dignità sociale, eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Polis Aperta ha preso parte all'incontro di Barcellona per combattere i crimini di odio. Il 18 ed il 19 marzo all'interno del Centre Lgbti di Barcellona si è tenuto l'incontro organizzato da Egpa Police e dal Council of Europe con le associazioni Lgbtqia+ per forze di polizia e forze armate, tra cui Polis Aperta grazie alla partecipazione di Monica Giorgi. Finalità dell'incontro l'organizzazione di gruppi di lavoro e di discussione all'interno dei quali potessero emergere suggerimenti per migliorare e adeguare alle nuove realtà sociali il manuale "Policing Hate Crime against Lgbti persons - training for a Professional Police Response". Dal confronto è emersa l'importanza di un dialogo continuo e vivo tra società civile, associazioni e forze di polizia, allo scopo di fornire alle vittime di crimini d'odio, condizioni che favoriscano l'ascolto e l'accoglimento da parte di operatori preparati e sensibilizzati sul tema. Per raggiungere tale risultato gli attori sociali devono fare rete costruendo network in grado di dare risposte alle vittime. Il nostro lavoro, come operatori di polizia, è quello di far rispettare la legge in questo caso, tuttavia, il tema è il rispetto dei diritti umani, ed è riduttivo pensare che si tratti "solo" di rivendicazioni legate alla comunità Lgbtqia+ quando si tocca la sfera dei diritti inalienabili della persona. Sicuramente, il lavoro di un agente di polizia quando si trova di fronte alla vittima di una crimine non è semplice, per tale motivo è importante che la comunità sappia che siamo attivisti e possa fare affidamento sul nostro operato. In prospettiva questa visibilità avrà riflessi positivi anche a livello lavorativo: i crimini d'odio devono essere combattuti, ma soprattutto occorre prevenirli per costruire un futuro migliore. "The more you train, the better you gain".
Il manuale è scaricabile gratuitamente al seguente link:
https://edoc.coe.int/en/lgbt/7405-policing-hate-crime-against-lgbti-persons-training-for-a-professional-police-response.html
La lentezza e la resistenza ai cambiamenti sono radicate nella nostra cultura. E nei nostri ambienti lavorativi persistono pregiudizi e stereotipi nei quali è prima di tutto immersa la nostra società: vi sarà capitato di sentire colleghi e, purtroppo, talvolta anche colleghe - perché per essere maschilisti non occorre per forza di cose essere maschi – dirsi conviti che se una collega si veste per esempio in un certo modo, ciò significhi inequivocabilmente una sua disponibilità sessuale, oppure che lo fa perché ha ottenuto o vuole ottenere qualcosa. Troppe volte abbiamo sentito “misurare” la professionalità delle colleghe valutandole anche in base al presunto numero di partners avuti.
Chi non vive la discriminazione non capisce la necessità e l’importanza di determinate questioni. La parte della popolazione che detiene il privilegio, non si accorge che esiste una marginalizzazione di una certa categoria, che non sempre è una minoranza – nel caso delle donne non lo è per esempio, le donne sono una minoranza all’interno delle Forze Armate e di Polizia ma costituiscono il 50% della popolazione mondiale – e quando ciò viene fatto notare, le cose che ci vengono dette sono più o meno sempre le solite: “Ah ma siete esagerati, siete esagerate, vabbé ma non sarà proprio così, ormai la parità si è raggiunta, eh vabbé però che noia, non è che poi vivete così male, dipende anche da te come vi ponete, forse quello che pensate di subire in realtà lo subite perché siete dei rompiscatole, non perché donna/gay/nera”. Questa cosa qua, negare la discriminazione dell’altro nei termini in cui l’altro la vive, è un modo di esercitare il privilegio.
Come Polis Aperta non smetteremo di lottare per i nostri diritti non solo perché sia nella nostra professione che nell’ambito di questa associazione lavoriamo al servizio della giustizia sociale, ma anche perché non farlo priverebbe le generazioni future degli strumenti per difendere quei diritti.
Oggi è l’8 marzo, non la "festa della donna", ma la lotta per un mondo meno discriminante.
L’associazione Polis Aperta ritiene che le frasi transfobiche pronunciate dal consigliere comunale Samuele Piscina non solo siano vergognose per il contenuto di odio e pregiudizio che veicolano nei confronti di una categoria già esposta a fragilità, ma inaccettabili da chi, utilizza una sede istituzionale non per rappresentare i cittadini, ma per cercare di istituzionalizzare la violenza. Una violenza nelle parole e nei contenuti perpetrata strumentalizzando e decontestualizzando operazioni di polizia di quasi un decennio or sono. Chi lavora vestendo una divisa ha giurato sulla Costituzione italiana di difendere le regole della convivenza democratica e la popolazione “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” come ricorda l’Articolo 3 della nostra Costituzione. E’ dunque indubbio che sia oltremodo vergognoso “tirare per la giacchetta” gli operatori di un corpo sperando di nascondere un’evidente e intollerabile personale transofobia dietro al dito di un presunto pericolo sociale. La nostra democrazia da sempre promuove la pluralità dei soggetti all’interno del tessuto sociale, se chi rappresenta le istituzioni non è in grado di svolgere questo importante compito, si dimetta. E si dimetta subito.
Durante il regime nazista tedesco numerosi omosessuali furono internati in campi di concentramento insieme con Ebrei, Rom, Sinti e Testimoni di Geova. Lo sterminio degli omosessuali nei campi di concentramento nazisti è stato indicato come Omocausto.
Negli anni che vanno tra il 1933 e il 1945 almeno 100.000 uomini furono arrestati come omosessuali, di cui circa la metà furono condannati; la maggior parte di questi ha trascorso il periodo di detenzione assegnato nelle prigioni regolari, ma tra i 5 e i 15.000 hanno finito con l'essere internati nei vari campi. Solo a partire dagli anni '80 del '900 si è cominciato a riconoscere anche questo episodio di storia inerente alla più ampia realtà della persecuzione nazista. Nel 2002 infine il governo tedesco ha chiesto ufficialmente scusa alla comunità LGBTIQ+.
Prima dell'avvento del Terzo Reich, Berlino veniva considerata una città liberale con molti locali gay, nightclub e spettacoli di cabaret. C'erano molti ritrovi dove turisti e residenti eterosessuali e omosessuali potevano praticare il crossdressing.
Il primo movimento omosessuale tedesco venne rapidamente eliminato con l'avvento al potere del partito nazionalsocialista di Adolf Hitler. L'ideologia nazista reputò l'omosessualità incompatibile con i propri ideali considerando che le relazioni sessuali dovessero “[...] essere finalizzate al processo riproduttivo, essendo loro scopo la conservazione e il prosieguo dell'esistenza del Volk [il popolo], piuttosto che la realizzazione del piacere dell'individuo”.
Ernst Röhm, un uomo che Hitler stesso percepì come una possibile minaccia alla propria supremazia, comandante della prima milizia nazista, le Sturmabteilung (conosciute come SA), esibì in modo discreto la propria omosessualità fino al 1925.
Nel tempo però Hitler rivide questa posizione quando sentì minacciato il proprio potere da parte di Röhm. Il 30 giugno1934, durante la “Notte dei lunghi coltelli”, Hitler ordinò l'epurazione di coloro che lo minacciavano. Tra questi figurava Röhm e il suo omicidio diede a Hitler il pretesto per compiere ulteriori azioni contro le SA al fine di renderle innocue e docili al suo potere. Dopo aver consolidato la sua posizione di leader ed essere diventato Cancelliere, Hitler incluse la categoria degli omosessuali tra coloro che dovevano essere inviati nei campi di concentramento durante la Shoah.
omosessuali. Nel 1936 Heinrich Himmler, comandante delle SS, creò l'Ufficio Centrale del Reich per la lotta all'omosessualità e all'aborto. Il decreto costitutivo di questo nuovo ufficio recitava “[...] Le attività omosessuali di una non trascurabile parte della popolazione costituiscono una seria minaccia per la gioventù. Tutto ciò richiede l'adozione di più incisive misure contro queste malattie nazionali”.
Ovviamente i rapporti omosessuali, considerati “sterili” ed “egoistici” vennero visti come un tradimento alle politiche demografiche di potenziamento del popolo non essendo i gay in grado di riprodursi e perpetuare così la razza ariana. Per la stessa ragione anche la masturbazione venne considerata dannosa al Terzo Reich, seppur trattata con minor severità.
Quegli omosessuali che non dissimulavano il proprio orientamento sessuale o che non erano disposti a contrarre matrimoni di convenienza incominciarono così ad essere "raccolti" e inviati a tempo indeterminato - come metodo curativo - a duri campi di lavoro in campagna. Più di un milione di tedeschi sospettati di "attività omosessuali" sono stati presi di mira, di cui almeno 100.000 sono stati arrestati, interrogati e processati e non meno di 50.000 condannati alla carcerazione. Altre centinaia di uomini sono stati sottoposti a castrazione o sterilizzazione obbligatoria dietro ordine diretto dei tribunali.
Hitler supponeva che l'omosessualità fosse un "comportamento degenerato" che rappresentava una minaccia alla capacità demografica dello stato e ne che danneggiava il "carattere virile". I gay vennero denunciati come "nemici dello stato" e accusati come "corruttori" della moralità pubblica che mettevano in pericolo il tasso di natalità della Germania.
I gay soffrirono di un trattamento particolarmente crudele all'interno dei campi di concentramento; questo può essere attribuito sia al duro atteggiamento delle SS di guardia nei confronti dei gay, come pure agli atteggiamenti omofobici ben radicati nella società nazista. Alcuni morirono a seguito di feroci bastonature, in parte effettuate da altri deportati.
I medici nazisti utilizzarono spesso i gay in esperimenti "scientifici" atti a scoprire il "gene dell'omosessualità" e poter così guarire i futuri bambini ariani che fossero stati omosessuali. Particolarmente crudeli le sperimentazioni del medico delle SS Carl Vaernet che effettuò uno studio su di un preparato a base di ormoni di sua invenzione sugli internati omosessuali nel campo di Buchenwald: circa l'80% degli internati sottoposti alla "cura" a base di massicce dosi di testosterone non sopravvisse.
Le donne non vennero legalmente perseguitate dalla legge nazista contro gli omosessuali: il paragrafo 175 discriminava infatti esclusivamente l'omosessualità maschile.
Di là dalle leggi, la persecuzione e la repressione delle lesbiche va inquadrata nella più ampia concezione nazionalsocialista secondo cui il ruolo delle donne era limitato alla famiglia e alla cura dei figli e per questo era considerato più semplice persuaderle o forzarle ad accettare un orientamento di tipo eterosessuale.
Le lesbiche vennero viste come un pericolo ai valori dello stato e spesso marchiate dallo status di "asociali" (indossando in tal caso il triangolo nero anziché il triangolo rosa). La qualità di lesbica era considerata spesso un'aggravante rispetto appunto all'asocialità o ad altre imputazioni (ovvero all'essere ebree, ladre, prostitute, ecc.).
Come per tutti gli elementi indesiderati, anche per gli omosessuali si aprirono i cancelli dei campi di concentramento. A migliaia (il numero preciso non si saprà probabilmente mai) furono costretti a subire aberranti esperimenti medici, torture ed umiliazioni mentre quelli più forti che riuscivano a resistere, venivano soppressi nelle camere a gas. Un dramma, quello degli omosessuali, che non terminò neppure con la fine della guerra. Considerati “colpevoli” anche da chi aveva liberato i campi di sterminio, molti continuarono a scontare in carcere le pene inflitte dal regime nazista, così, nel timore di ulteriori persecuzioni, per la vergogna imposta da secoli di repressione, chi visse in prima persona l’Omocausto si chiuse nel silenzio. Per decenni del dramma di migliaia di uomini e donne imprigionati, torturati e uccisi per il loro modo non eterosessuale di amare non si seppe più nulla.
A partire dal 1936 vennero indicati con un triangolo rosa (era un po' più grande rispetto agli altri triangoli attribuiti ai diversi deportati, affinché fosse ben visibile anche da lontano), come il colore usato dalle ragazzine dell’epoca, che serviva per ridicolizzare la mascolinità. La posizione degli internati omosessuali fu fin dall’inizio tra le peggiori: in molti casi essi costituirono l’ultimo gradino della gerarchia del lager. Oggetto di violenze immotivate, trattati con particolare disprezzo dai nazisti e spesso anche dagli altri detenuti, i deportati omosessuali vennero destinati a lavori particolarmente duri, nella convinzione che in tal modo potessero riacquisire la loro mascolinità perduta. Heinz Dörmer, ex deportato omosessuale, ha dichiarato
“Quanto più spesso e più forte (le SS) ci picchiavano, tanto più aumentava la considerazione per loro. (…) Eravamo considerati una razza infame ed essi potevano fare di noi tutto ciò che volevano. Se avessero ucciso qualcuno di noi sarebbero stati addirittura lodati e noi dovevamo stare a guardare”.
Heinz Heger, un altro ex deportato omosessuale, ricorda
“un omosessuale che entrava in ospedale aveva pochissime probabilità di uscirne vivo. All’ospedale i deportati col triangolo rosa servivano da cavie per le ricerche e gli esperimenti medici che il più delle volte finivano con la morte”.
Le lesbiche che non vollero o non poterono nascondersi dovettero pagare un caro prezzo. A partire dal 1936 molte furono rinchiuse in ospedali psichiatrici e costrette a seguire programmi di rieducazione. Per tante altre si aprirono le porte dei campi di sterminio. Non si sa con esattezza quante furono le lesbiche internate nei campi di concentramento e di sterminio. Nella maggior parte dei casi il loro internamento avveniva con motivazioni ufficiali diverse dall’omosessualità: generalmente venivano classificate come “asociali”, come prigioniere politiche, come ebree, come comuniste, in tanti casi come prostitute. Per questo motivo molte furono costrette a lavorare nei bordelli dei lager. Non esistendo come categoria, le lesbiche non furono contraddistinte dal triangolo rosa, come accadeva per gli uomini. Alla fine della guerra questo sterminio invisibile venne totalmente rimosso dalla memoria collettiva: qualche ricerca ha iniziato a fare luce solo in anni recenti.
La fine della guerra e la liberazione dal nazismo e dal fascismo cambiarono ben poco la condizione degli omosessuali. Per molti, la liberazione dei campi di sterminio non significò affatto il ritorno alla libertà. Al contrario, accadde che molti triangoli rosa passarono dai campi di sterminio al carcere dove avrebbero finito di scontare la pena inflitta in base al Paragrafo 175: le autorità alleate ritennero che il castigo imposto fosse meritato e pertanto dovesse essere scontato fino in fondo. A nessun omosessuale, inoltre, venne concesso un indennizzo per quello che aveva subìto. La Repubblica Federale Tedesca non abolì il Paragrafo 175: si limitò ad alleggerirlo degli inasprimenti approvati dal regime nazista. Venne riformato nel 1969 ma verrà abrogato definitivamente solo nel 1994. Nel frattempo, 50.000 omosessuali verranno condannati per il proprio orientamento sessuale.
Anche i libri di storia rimossero la memoria dell’Omocausto. Molte associazioni di ex deportati, inoltre, rifiutarono (e alcune rifiutano tuttora) di considerare tali gli ex triangoli rosa. Il cammino per il riconoscimento degli omosessuali come vittime della follia nazista fu lungo.
Quando i cancelli di Auschwitz e degli altri lager vennero abbattuti, molti dei superstiti marchiati con il triangolo rosa preferirono tacere il vero motivo del loro internamento, diventando vittime senza voce e senza giustizia.
Il ricordo della Shoah non riguarda solo gli ebrei ma l'intera umanità. Ricordare e commemorare le vittime della Shoah non significa affattotrascurarealtri genocidi,né tantomenostabilire inutili ‘priorità’ tra stermini e dolori di un popolo piuttosto che dialtripopoli.
Per maggiori approfondimenti su questo tema si invita il lettore a fare riferimento alla cospicua e numerosa letteratura di riferimento.
BIBLIOGRAFIA
Scovino C., Fredy Hirsch. Un educatore ad Auschwitz. Omocausto: una storia dimenticata, La Meridiana, Molfetta (BA), 2023
Decise le date per l'assemblea primaverile di Polis Aperta: sabato 24 e domenica 25 febbraio a Sasso Marconi (Bologna). Per rispondere all'esigenza di avere una maggior socializzazione e un momento di incontro tra noi, dopo il Covid ne sentiamo il bisogno tutti, abbiamo optato per una struttura in grado di offrire spazi adeguati per assemblea, momenti conviviali compresa la possibilità per i partecipanti di pernottare all'interno. A breve potremo fornire maggiori dettagli con preventivi e programma delle due giornate... Stay tuned!

