(https://www.open.online/2022/07/12/polizia-concorso-disturbi-identita-genere/)
"Il fatto che le conoscenze in quest’ambito siano ancora molto contrastanti tra loro e spesso influenzate da disinformazione e pregiudizio si denota dalla continua evoluzione delle nozioni che conducono alla definizione delle diagnosi per le persone che comunicano un’identità di genere non allineata al proprio sesso biologico o un’identità gender non conforming.
Nel 2010, la WPATH ha pubblicato il “De-psychopathologisation statement” nel quale ha chiarito che le identità di genere vanno ritenute varianze di genere e perciò le probabili espressioni di genere che ne derivano non devono ricevere attribuzioni negative o patologiche - comprese quelle disallineate stereotipicamente al sesso attribuito alla nascita. Sicché, non essere cisgender è solo la manifestazione dell’identità individuale di ciascuno che non deve essere tradotta in una condizione patologica.
Nel DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) IV-TR del 2001 vi era la definizione di disturbo dell’identità di genere che nella V edizione diviene “disforia di genere”. Perdendo il termine “disturbo” e acquisendo quello di “disforia”, il focus si sposta sul disagio soggettivo provato dalla persona e non su un disturbo generico dell’identità che lascia poco spazio all’ empatia e molto alla preoccupazione. Questa nuova terminologia di diagnosi viene collocata non più nel capitolo delle parafilie e dei disturbi sessuali: potrebbe apparire una sfumatura, in realtà, segna la trasformazione della diagnosi e del suo campo d’interesse: da esclusivamente comportamentale, sessuale e disturbato, ad uno più vasto che riguarda l’identità e personalità del soggetto tutto; altro punto che potrebbe non risaltare ad un occhio non critico è il passaggio dalla parola “sesso”, che dominava l’edizione precedente, alla parola “genere” che anche in questo caso segnala uno slittamento del focus su aspetti che non riferiscono al mero piano comportamentale. Il cambiamento da considerare forse il più importante in termini di comunicazione è stato l’eliminare dai criteri diagnostici quello dell’orientamento sessuale. Si tratta di una vera svolta, in quanto segnala l’aver preso atto che l’orientamento sessuale non costituisce un “campanello d’allarme”: diversamente dalle vecchie edizioni affette da un pregiudizio etero-normativo, in cui si riteneva l’orientamento eterosessuale un segnale di predizione per chi si sottoponeva al cambiamento chirurgico del sesso, in altri termini, un soggetto omosessuale - se si fa erroneamente riferimento al suo sesso biologico - era favorito nel percorso di transizione perché avrebbe acquisito di lì a poco lo status di “eterosessuale” e avrebbe protratto nel tempo un’immagine binaria e quindi di “risanamento” della natura che vede come “right way” il binomio di coppia maschile-femminile. Diversamente, un orientamento omosessuale, non era ben visto nei soggetti che desideravano effettuare una terapia ormonale sostitutiva perché avrebbero perseguito un ideale non binario e fuori dagli schemi etero-normativi.
Lo stesso è avvenuto con la pubblicazione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del ICD-11 (International Classification of Diseases) che ha trasformato la diagnosi di disturbo dell’identità di genere (DIG) in “incongruenza di genere” spostandola dal capitolo dedicato ai disturbi mentali e comportamentali al capitolo rivolto alla salute sessuale e ha mantenuto insieme alla diagnosi per gli adulti, quella per gli adolescenti e quella per i bambini prepuberi.
Da persona trans, ho esperienza diretta dell’iter psicologico da affrontare per ottenere la relazione che attesti l’idoneità all’accesso alla terapia ormonale sostitutiva secondo la legge 164/1982.
Una sostituto commissario che ha conosciuto profondamente la mia esperienza lavorativa correlata al mio percorso di affermazione di genere, un giorno mi disse: che assurdità però, sei stato sicuramente più “controllato” te psicologicamente che chiunque altro non trans, in che modo potresti mettere in pericolo l’altro con una consapevolezza di te così determinata? Mi fece sorridere e poi, per qualche giorno, riflettere.
In che modo in fase concorsuale la commissione potrebbe essere in grado di rilevare “segnali di disforia” responsabili di un non ottimale servizio? In che modo la disforia di genere e non più “il disturbo dell’identità” potrebbe influire nello svolgimento del lavoro di polizia? E’ pretenzioso affermare che la TOS (terapia ormonale sostitutiva) sia invalidante per un poliziotto, dal momento che “rilevare disforia” non significa rilevare una terapia ormonale in atto: vi sono persone transgender che non richiedono la terapia e la medicalizzazione. Non da meno, affermare che una terapia ormonale precluda – in sede concorsuale - ad un ragazzo o ad una ragazza la carriera all’interno delle forze dell’ordine, renderebbe immotivata la mia (p)e(r)sistenza (e quella di altr*) all’interno dell’Amministrazione.
La diagnosi di disforia di genere non si ottiene semplicemente sottoponendosi ad una perizia medica, nessuno specialista potrebbe mai investirsi del potere di affermare che un soggetto deve intraprendere un percorso di transizione senza l’intenzionalità pregressa di quest’ultimo dal momento che la percezione di sé, del proprio corpo e l’esperienza della mascolinità e della femminilità in termini di espressione di genere è del tutto soggettiva e insindacabile. Il percorso di affermazione di genere è (o almeno, dovrebbe essere) completamente autodeterminato e deve assurgere da accompagnamento alle consapevolezze che l’individuo ha acquisito di sé nel corso della vita esperita. Nessun esperto nell’ambito potrebbe affermare che “sei trans, prendine coscienza”. L’istanza è soggettiva, personale, individuale, è un impulso interno di emersione ed emergenza d’ autenticità.
La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze trans (e non parlo di bambini ed adulti perché è chiaro a tutti, da bando, l’età come requisito di accesso) che iniziano un percorso psicologico per ottenere la relazione psicologica che attesti disforia di genere, vorrebbe ottenere risposte dall* specialista sedut* di fronte a loro, per deresponsabilizzarsi, per ottenere conferme e riconoscimento. Solitamente ci si sente rispondere: puoi saperlo soltanto tu. Io sono qui per aiutarti ma la verità di ciò che senti tu è incontrovertibile.
Illustrato ciò, è chiara l’inadeguatezza dei regolamenti – scientificamente parlando – e profondamente critico diviene il passaggio “disturbi dell’identità di genere attuali o pregressi” dal momento che la disforia di genere non è più un disturbo – secondo gli aggiornamenti delle pubblicazioni sopramenzionate - e non può essere diagnosticata “coattamente” in nessuno soggetto nell’imminente immanenza, figurarsi nel “pregresso” che lascia libera interpretazione dello specifico significato: pregressi perché risolti o mai diagnosticati? E se ci si riferisce ad una condizione di “risoluzione del disturbo”, la domanda che sorge spontanea è in che modo? Alla luce di tutti i riferimenti scientifici che possediamo oggi, si può ancora alludere ad una “probabile risoluzione” di varianze legate alla propria identità senza rischiare una correlazione con le inammissibili cure riparatorie?
Se la Polizia è stata in grado di riconoscere fattivamente appartenenti che hanno dichiarato – come me – di essere molto più del loro sesso biologico e ha lasciato loro la libertà di autodeterminarsi negli ambienti lavorativi, perché non aprirsi alla possibilità di aggiornare i regolamenti in merito che favorirebbero la loro tutela e quella di chi semplicemente aspira candidamente ad indossare la divisa col proprio genere d’elezione?!"
Alessio Avellino, Presidente di Polis Aperta