"When i was in the military they gave me a medal for killing two men and a discharge for loving one”.
Sono le parole scolpite sulla tomba di Leonard Matlovich, veterano del Vietnam congedato con disonore per essere stato il primo militare a fare coming out. Matlovich è da sempre considerato una figura di spicco del movimento Lgbtqia+, noto per le sue battaglie a favore della comunità e soprattutto per aver combattuto l'esclusione e il licenziamento degli omosessuali dalle forze armate statunitensi. Sopra l’epitaffio, per volere dello stesso Matlovich, che preferì trasformare la propria tomba in un monumento dedicato alla memoria di tutte le persone Lgbt in divisa, nessun nome ma solo l’iscrizione “A gay Vietnam veternan”.
Oggi come allora il governo statunitense volta le spalle a quei servitor3 dello Stato che non rientrano nel proprio ideale di mascolinità tossica e patriarcale, indipendentemente dal loro senso del dovere, dai meriti sul campo e dalla dedizione che mettono ogni giorno nel loro lavoro. E’ sconcertante che alcune Istituzioni italiane, a cui spetta il compito di rappresentare tutta la cittadinanza, accolgano personaggi che, senza alcun investimento ufficiale o incarico istituzionale, sponsorizzano un concetto medioevale di lavoro all’interno delle forze di polizia e forze armate. Ritenendo idoneo al servizio solo chi si adegua al modello della forza bruta. Ebbene, chi indossa una divisa non è un gladiatore nell’arena, buono solo per malmenare o prendere schiaffi, ma si tratta di professioniste e professionisti che lavorano in contesti sociali complessi e che ogni giorno cercano di dare risposte reali ai problemi reali delle persone. A volte salvandole da contesti famigliari omotransfobici realmente violenti come l’azione che ha portato all’arresto per sequestro di persona di due genitori di una giovane 19enne segregata in casa a causa di una relazione con un ragazzo transgender. Lavorare in un corpo militare o in polizia, oggi, è rappresentare la democrazia italiana e le sue Istituzioni nate dall’impianto Costituzionale, ci auguriamo che essere un rappresentante, eletto, di queste stesse Istituzioni continui a significare rispettare e proteggere cittadin3 e lavorator3 senza sventolare anacronistiche teorie omotransfobiche, smentite da anni dalla scienza, che pretendono di determinare chi può o non può fare certi lavori indipendentemente dalla attitudini personali.
Anche per i carabinieri ritornano le unioni civili e i matrimoni in alta uniforme. Non tutti sanno, infatti, che nel 2024 il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri aveva disposto il divieto per i carabinieri, a partire dal 1 gennaio 2025, di indossare la Grande uniforme speciale, conosciuta anche come Gus, per il giorno del loro matrimonio.
Per i Carabinieri la Gus è da sempre simbolo di appartenenza e in molti si sono chiesti la motivazione di una decisione del genere. A livello mediatico, di recente si è parlato di Gus solo in relazione alle unioni civili di due militar3 dell’Arma con rispettiv3 partners, tant’è che noi di Polis Aperta qualche domanda in tal senso ce la siamo fatta.
In merito alla vicenda sono intervenute anche le sigle sindacali dell’Arma, le quali a più riprese hanno invitato il Comando generale a cambiare rotta, domandando quale fosse l’esigenza istituzionale di richiedere l'annullamento di quello che per i carabinieri è pubblicamente un atto di amore, fedeltà, credo e orgoglio per la propria uniforme.
Abbiamo appreso con gioia che il 17 febbraio scorso è stato definitivamente ripristinato l’uso della Gus per il o la militare che si sposa o che si unisce civilmente, limitandone l’uso esclusivamente alla fase della cerimonia, dunque con delle regole opportunamente più stringenti, anche per evitarne un uso poco decoroso durante feste e banchetti.
Crediamo che la possibilità sposarsi o unirsi civilmente per le coppie, anche in contesti specifici come quelli delle forze armate o altre istituzioni con uniformi, sia un passo importante verso una società più giusta e inclusiva. Il riconoscimento di un legame affettivo celebrato in uniforme tra persone dello stesso sesso simboleggia oltre che l’amore e l’impegno reciproco, il riconoscimento che l’amore non ha confini, né nelle diversità individuali né nei contesti in cui queste diversità si manifestano. Le forze armate, così come altre istituzioni, sono composte da persone di diverse origini, esperienze e identità. Pertanto, è essenziale che anche in ambito militare, come in ogni altro settore della società, venga garantita la piena parità di trattamento per tutte le coppie, comprese quelle omosessuali, che desiderano sancire il loro legame.
L’inclusività in queste cerimonie non riguarda solo l’atto dell’unione in sé, ma anche la possibilità di esprimere liberamente la propria identità e di essere accettati senza discriminazioni, rispettando la dignità di ogni individuo, a prescindere dal suo
orientamento sessuale. Quando una coppia può celebrare l’unione, anche in uniforme, il messaggio che le istituzioni mandano è forte e chiaro: l’amore e il rispetto non sono legati a stereotipi, ma si fondano sulla comprensione reciproca e sulla lotta per i diritti umani universali.
La forza di una società inclusiva risiede nella sua capacità di abbracciare le diversità e di promuovere l’uguaglianza in ogni ambito della vita. Riconoscere la celebrazione di un legame affettivo, anche in uniforme, è un simbolo di progresso, di rispetto e di accettazione che arricchisce il nostro concetto di amore e solidarietà.
In tema tema di sicurezza pubblica, le disposizioni messe in atto da questo governo, dal suo insediamento ad oggi, raccontano di un’idea di sicurezza legata indissolubilmente al concetto di repressione penale e sociale. Lo abbiamo visto fin dall’inizio con il Decreto anti-rave e il Decreto Caivano, atti normativi che manifestano un approccio rigido, panpenalista, mostrando una volontà di moralizzazione sociale verso valori univoci ed escludenti. Provvedimenti che racchiudono in sé discriminazione per le minoranze politiche e sociali, emarginazione, demonizzazione, stigma. L’assordante silenzio di azioni politiche in grado di allentare il disagio economico e sociale, causa prima dei problemi che destabilizzano la sicurezza pubblica, è altrettanto significativo. Oltre che inquietante.
Il disegno di legge in materia di sicurezza pubblica è solo l’ultimo atto, in ordine cronologico, di un modello sicurezza che è già stato ampiamente sdoganato nel nostro Paese, che ha come scopo implicito quello di soffocare il dissenso, in nome di una repressione moralizzatrice che non tollera stili di vita diversi da quelli del proprio paradigma.
L’iter parlamentare di questo disegno di legge si sta caratterizzando per le continue proposte normative che via via stanno andando ad implementarlo a seconda degli eventi politico sociali che infiammano lo scenario italiano. Ultima trovata a cui è stata data ampia pubblicità sulla carta è una ulteriore proposta normativa da incardinare nel cosiddetto Ddl Sicurezza in tema di ‘scudo penale’ per le forze di polizia. Un proposta indubbiamente a rischio incostituzionalità, che mina il principio di obbligatorietà dell’azione penale (articolo 112 della Costituzione), e il fondamentale principio di uguaglianza della nostra Costituzione (articolo 3 principi fondamentali). Un progetto di legge che ci lascia senza parole, perché in contrasto con la tutela dei diritti umani fondamentali come la vita e l’integrità fisica. Inoltre avviare un procedimento, quale atto dovuto, finalizzato ad accertare i fatti è nell’interesse di tutt3 anche di chi indossa una divisa.
Ciò che stupisce è il messaggio pericoloso che accompagna queste proposte normative, di apparente sostegno alle forze di polizia e di tutela del personale operante. Tuttavia
basta una accurata riflessione su quali siano le reali forme di tutela per il personale delle forze di polizia, per comprendere la portata di una propaganda che in realtà mette a rischio chi ha scelto di fare un lavoro così importante e delicato come quello di operare al fine di garantire la sicurezza pubblica.
Il contesto attuale parla di un contratto di lavoro rinnovato il 18 di dicembre 2024 e già scaduto all’inizio del 2025, con un aumento ben al di sotto della soglia del tasso inflattivo. La carenza di personale oramai cronica, costringe gli operator3 a turni massacranti per sopperire al gap determinato da un turn over insufficiente. Ore di straordinario, il cui ammontare per singola ora già di per sé è ridicolo, che vengono remunerante entro i due anni successivi. Una categoria di lavoro, quella di chi indossa una divisa, ad alto rischio di burn out e suicidio, ma questi dati preoccupanti vengono sistematicamente ignorati da chi dice di voler “difendere” le forze di polizia. Il personale delle forze di polizia e del comparto sicurezza tutto, non ha bisogno di norme che lo allontanino dal resto della cittadinanza in barba al principio di uguaglianza. Ha bisogno di diventare un ponte tra i cittadin3 e le istituzioni, un angolo sicuro a cui potersi rivolgere nei momenti difficili della vita.
Come associazione Lgbtqia+ costituita soprattutto da appartent3 alle forze di polizia, riteniamo assolutamente inutile un disegno di legge che segue un modello di sicurezza meramente repressivo. La sicurezza si garantisce soprattutto e innanzitutto con la prevenzione. Lo riteniamo pericoloso per il personale, sempre più oggetto di strumentalizzazione politica, troppo spesso capro espiatorio per le responsabilità di un governo incapace di rispondere ai bisogni della cittadinanza.
Polis Aperta ha sempre difeso e continuerà a difendere i valori democratici e costituzionali, quali unici principi di tutela e sicurezza di tutta la popolazione.
Già tra la metà e la fine del diciannovesimo secolo ci furono i segnali della nascita e della crescita di comunità gay in Germania e nello stesso periodo la natura della sessualità umana diventò un’area di ricerca scientifica e di dibattito in Europa e negli Stati Uniti. Le condizioni politiche e sociali, nel primo ventennio del diciannovesimo secolo in Germania, consentivano alle persone di esprimersi pubblicamente a favore della depenalizzazione delle relazioni sessuali tra uomini e l’abrogazione del Paragrafo 175 e gli attivisti iniziarono a organizzarsi in gruppi che ne richiedevano la depenalizzazione. Oltre all’attivismo politico i gay iniziarono anche a socializzare nei bar e nei luoghi di ritrovo e questo consentì loro di creare dei legami e di formare le prime reti e comunità gay. Le comunità e i circuiti gay in Germania continuarono a crescere e a svilupparsi durante la Repubblica di Weimar (1918-1933), un periodo di tumulti politici e di sofferenza economica ma anche di libertà artistica e culturale. Come parte delle trasformazioni sociali e culturali del tempo molti tedeschi sfidarono pubblicamente le norme legate al sesso e particolarmente nelle grandi città. Nel 1897 fu fondato il Comitato Scientifico-Umanitario (Wissenschaftlich-humanitäres Komitee, WhK) e negli anni Venti la Lega dei Diritti Umani (Bund für Menschenrecht, BfM). Nel 1919 a Berlino il medico e ricercatore sessuale ebreo tedesco Magnus Hirschfeld fondò l’Istituto per la Scienza Sessuale (Institut für Sexualwissenschaft), che diventò famoso a livello internazionale. L’Istituto condusse studi scientifici pionieristici e fornì un’educazione pubblica sulla sessualità umana. Prima di salire al potere Hitler e molti altri leader nazisti condannarono la cultura di Weimar come decadente e degenerata: parte di quella condanna era dovuta al rifiuto della libera espressione della sessualità in quell’epoca, tra cui la visibilità delle comunità gay. Tuttavia, era noto che nel partito nazista ci fossero alcuni uomini gay, in particolare Ernst Röhm che era il leader delle SA (Sturmabteilung, chiamate comunemente Stormtroopers), un gruppo paramilitare nazista violento e radicale. I nazisti salirono al potere il 30 gennaio 1933 e provarono subito a eliminare le manifestazioni visibili e smantellare i circuiti gay che si erano sviluppati durante la Repubblica di Weimar e una delle prime azioni naziste contro le comunità gay fu la chiusura dei bar e dei luoghi di ritrovo gay nonché l’eliminazione di giornali, riviste e case editrici gay. Nel maggio del 1933 i nazisti vandalizzarono l’Istituto per le Scienze Sessuali di Hirschfeld e lo obbligarono a chiuderlo. Parte di quell’azione incluse la distruzione degli scritti di Hirschfeld che furono dati alle fiamme dai nazisti e la distruzione dell’Istituto fu un chiaro segno che i nazisti non avrebbero tollerato le politiche sessuali riformiste promosse dall’Istituto. A partire dalla fine del 1933 e l’inizio del 1934, i nazisti usarono nuove leggi e pratiche di polizia per arrestare e detenere senza processo un certo numero di uomini gay. Gli studiosi stimano che durante il regime nazista circa 100.000 persone furono arrestate ai sensi del Paragrafo 175. Tra 5.000 e 15.000 uomini furono imprigionati nei campi di concentramento come criminali “omosessuali”. Questo gruppo di prigionieri doveva indossare un triangolo rosa sulle divise del campo come parte del sistema di classificazione dei prigionieri. Secondo i racconti di molti sopravvissuti i prigionieri identificati dal triangolo rosa erano tra i gruppi più abusati nei campi. A volte gli venivano assegnati i lavori più estenuanti e faticosi nel sistema del campo di lavoro, spesso erano oggetto di abusi fisici e sessuali da parte delle guardie del campo e degli altri prigionieri e in alcuni casi venivano picchiati e umiliati pubblicamente. Nel campo di concentramento di Buchenwald alcuni prigionieri identificati dal triangolo rosa furono oggetto di esperimenti medici disumani. Gli altri internati evitavano i prigionieri identificati dal triangolo rosa i quali si trovavano così isolati e impotenti nella gerarchia dei prigionieri: la situazione di isolamento di questi prigionieri rendeva la loro sopravvivenza molto più difficile e nei campi di concentramento morì un numero sconosciuto di prigionieri identificati dal triangolo rosa. La fine della guerra e la sconfitta del regime nazista non comportarono necessariamente un senso di liberazione per gli uomini gay che rimasero emarginati nella società tedesca. Decine di migliaia di persone furono condannate alla prigione anche nel dopoguerra a causa del Paragrafo 175. Per questo per gran parte del ventesimo secolo fu difficile conoscere le storie di questi condannati durante l’epoca nazista a causa dell’applicazione da parte della Germania del Paragrafo 175. Tuttavia, gli studiosi hanno cercato di documentare le esperienze vissute da queste persone servendosi dei registri di polizia e dei documenti dei tribunali e dei campi di concentramento. Negli anni Novanta il governo tedesco riconobbe gli “omosessuali perseguitati” (“verfolgten Homosexuellen”) come vittime del regime nazista e nel 2002 - per la prima volta - gli uomini gay che avevano sofferto a causa dei nazisti poterono richiedere un risarcimento monetario al governo tedesco per le ingiustizie commesse nei loro confronti. Nel maggio del 2008 fu inaugurato il Memoriale per gli Omosessuali assassinati dal nazismo (Denkmal für die im Nationalsozialismus verfolgten Homosexuellen) vicino al parco di Tiergarten nel centro di Berlino.
COSA ACCADDE IN ITALIA? Li chiamavano femminielli, arrusi, pederasti... Con questi nomignoli ironici e sprezzanti la società fascista mostrava la sua ostilità nei confronti dei gay arrivando a relegarli in fazzoletti di terra il più lontano possibile dalla civiltà. Lo conferma la storia delle decine di omosessuali mandati da Mussolini al confino in mezzo all'Adriatico, a Lampedusa e a Ustica. Il regime eliminò il reato di omosessualità dal progetto del Codice penale Rocco poiché nella nuova Italia fascista non era ammesso nemmeno immaginare un simile reato. Venne conservata la misura del confino a scopo preventivo, perché non "sporcassero" l'immagine del Paese. Tra il 1936 e il 1940 circa, 300 gay furono condannati come "pericolosi per la sicurezza pubblica". Nel 1939 una sessantina di confinati finì a San Domino, la più grande delle isole Tremiti, sulla quale i fascisti costruirono alcuni casermoni in cemento per ospitare i confinati, senza elettricità né acqua corrente. Dei circa sessanta gay arrivati a San Domino ben quarantacinque provenivano da Catania, tutti arrestati e condannati agli inizi del 1939, durante una "caccia alle streghe" scatenata dall'allora questore della città siciliana, Alfonso Molina. I confinati vennero portati sull'isola in catene ma poi furono lasciati liberi di muoversi seppur sorvegliati dalle guardie che arrivavano a turno dalla vicina San Nicola. Nel giugno del 1940 la struttura venne riconvertita, a causa dell'entrata in guerra da parte dell'Italia, in campo di internamento per stranieri, gli omosessuali rientrarono nelle loro città con il solo obbligo di firma in questura ogni sera.
BIBLIOGRAFIA: Giartosio T., Goretti G., La città e l'isola. Omosessuali al confino nell'Italia fascista, Donzelli Ed., Roma, 2006 - Pedote P., L’isola dei papaveri, Area 51, 2013 - Scovino C., Fredy Hirsch un educatore ad Auschwitz. Una storia dimenticata: l’Omocausto, La Meridiana, Molfetta (BA), 2023
Al via la campagna 2025 per il tesseramento a Polis Aperta. Il nuovo anno si apre con l'orgoglio di un compleanno dalla cifra tonda, l'associazione, nata nel 2005, spegne, infatti, 20 candeline. Per celebrare l'anniversario stiamo preparando una serie di eventi che ci accompagneranno durante tutto l'anno e che ci permetteranno di celebrare la stagione dei pride con sempre più orgoglio. Abbiamo attraversato due decenni, centinaia di battaglie per i diritti civili e questo merita un momento di riflessione perché per dirla con Dario Fo: "Se non sai da dove vieni non riuscirai mai a capire dove vuoi arrivare". E noi vogliamo arrivare lontano, vogliamo un futuro costruito sul rispetto di ogni diversità, dei diritti civili e della democrazia. Vogliamo ora il futuro e non abbiamo intenzione di fermarci.
Ogni richiesta di affiliazione all’associazione dovrà essere sottoposta al direttivo che potrà approvare o respingere la domanda. Chiunque condivida gli obiettivi di Polis Aperta può comunque sostenere la causa anche senza associarsi effettuando una donazione. In tal caso, se gradito, verrà trasmessa all’indirizzo email una tessera di sostenitore. Per iscriversi basta un clik sul seguente link e compilare il format; per sostenere la causa ed effettuare una donazione basta scorrere la pagina fino all’ultima parte del testo dove è evidenziata la parola donazione.
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Il magazine on line dell'Associazione per i diritti umani ha pubblicato nel numero di dicembre una interessante intervista a un socio di Polis aperta appartenente al corpo della Polizia Penitenziaria. Una interessante discussione dove l'esperienza personale si intreccia con temi di impellente attualità come diritti civili e benessere lavorativo legato alla possibilità di essere se stessi anche nella professione.
E' possibile leggere l'intervista integrale al link:
https://www.peridirittiumani.com/2024/12/27/polis-citta-aperta-forze-dellordine-e-omosessualita/
Si è svolta lo scorso 23 novembre a Roma l’annuale assemblea di Polis Aperta Odv, associazione Lgbtqia+ che riunisce appartenent3 alle forze di polizia e forze armate. Nell’occasione i soc3, present3 sia fisicamente sia attraverso le deleghe, hanno votato eleggere il nuovo consiglio direttivo e la presidenza dell’associazione. A guidare Polis Aperta per il triennio 2024 – 2027 sarà Daisy Melli, giornalista professionista per quasi due decadi agente di Polizia locale a Reggio Emilia. Parzialmente rinnovato anche il Consiglio direttivo con l’ingresso di Leo Paglia, vice presidente, referente per le tematiche transgender e agente di Polizia penitenziaria, Monica Giorgi, Arma dei Carabinieri - segreteria nazionale dell’Usic, consigliera con delega alla gestione dei social e rapporti con l’Arma e Carlo Scovino, scrittore e docente universitario con delega alla formazione. Confermati e confermate all’interno del consiglio con le deleghe rinnovate: Raffaele Brusca, della Polizia di Stato alla segreteria, Simonetta Moro psicologa, appartenete alla Polizia Locale di Bologna sarà tesoriera e Michela Pascali Silp-Cgil avrà la delega ai rapporti istituzionali.
Polis Aperta Odv è un’associazione nata nel 2005 per volontà di alcune persone, omosessuali in divisa, che seguendo l’esempio europeo all’interno dei corpi di polizia di vari paesi europei hanno voluto dar vita ad una associazione fino ad allora impensabile, un organismo che riunisse la comunità Lgbtiqia+ in divisa e che infrangesse il tabù di identità non definite dallo stereotipo eteronormativo all’interno di forze di armate e corpi di polizia. Da allora di strada ne è stata fatta, anche se il cammino è ancora lungo da percorrere. Oggi, infatti, non solo le persone Lgbtqia+ in divisa sono una realtà presente e all’interno di corpi di polizia e forze armate, ma la collaborazione con le Istituzione e la formazione che l’associazione porta avanti, in collaborazione con altre realtà della comunità, rivolta a militari, agenti e civili è l’obiettivo per decostruire l’odio verso l’altro garantendo il rispetto dei valori della Costituzione e di tutte le identità.
Siamo di fronte all’ennesimo pesante attacco alla comunità Lgbtqia+ che non ha altri fini se non la creazione fittizia di un nemico, con la negazione di tutte le identità che non rientrano nel paradigma patriarcale eteronormato. Il Ddl Varchi, approvato in via definitiva dal Parlamento, mette fuori legge le famiglie che si rivolgono alle Gpa anche i stati dove la gestazione per altri è normata e legale. Un provvedimento giuridicamente assurdo e socialmente pericoloso. Un’assurdità secondo il diritto perché alla pretesa di creare un “reato universale” non corrisponde una giurisprudenza in grado di normare ciò che avviene legalmente in altri stati. Pericoloso perché siamo di fronte ad una legge che cela un attacco propagandistico alla comunità Lgbtqia+ il cui chiaro intento è quello di colpevolizzare e mettere all’indice tutte le identità non conformi al loro modello di società. Una visione medioevale che non solo non corrisponde all’attuale spaccato delle società ma che come un boomerang rischia peggiorare il domani di tutti i cittadini e le cittadine. In una società, infatti, dove l’ombra dell’inverno demografico pesa come un macigno sul futuro, chi legifera preferisce punire le minoranze invece di occuparsi di promuovere una reale salute riproduttiva, riformare la legge sulla adozioni consentendole anche a single o coppie Lgbtqia+ e agevolare le plurali forme di famiglie che, di fatto, già esistono all’interno della nostra società e che, ogni giorno, si sperticano fra mille difficoltà per consegnare alle giovani generazioni una società migliore e un futuro degno di questo nome.
La Casa Arcobaleno di Reggio Emilia, intitolata a Pier Vittorio Tondelli scrittore reggiano icona del movimento, ha aperto i battenti il 20 novembre del 2022 in occasione del TdoR, transgender day of remembrance, da allora, in poco meno di due anni, ben dodici persone hanno chiesto aiuto alla residenza reggiana per sfuggire a contesti familiari con situazioni critiche, a volte apertamente ostili o violente. Ragazzi e ragazze discriminati cacciati di casa o minacciati per il loro orientamento sessuale o per un’identità di genere non conforme. La residenza voluta da un progetto di Arcigay Gioconda di Reggio Emilia è un’unità abitativa messa a disposizione dal Comune e Acer in grado di ospitare fino a quattro persone, è interamente finanziata grazie alle donazioni e gestita da volontari che, per aiutare chi sfugge da famiglie o situazioni gravemente respingenti, lavorano ogni giorno a stretto contatto con le istituzioni e le forze di polizia. Nel novembre del 2022, durante l’assemblea autunnale di Polis Aperta svoltasi appunto a Reggio Emilia, l’associazione fece una donazione a favore del progetto e nell’occasione diversi soci contribuirono di tasca propria alla nascita di questo prezioso posto sicuro. Oltre a tracciare un primo bilancio dell’attività della casa abbiamo aperto una discussione con Albero Nicolini, coordinatore casa arcobaleno e responsabile dell’Area sociale Arcigay Reggio Emilia, per comprendere quali sinergie è possibile mettere in campo, in quanto agenti di polizia, per accompagnare chi si trova ad affrontare un momento tanto terribile a causa della propria identità di genere o dell’orientamento sessuale e affettivo.
Nicolini, dopo due anni di attività di Casa Arcobaleno, è possibile tracciare un primo bilancio?
Uno degli aspetti positivi e che siamo ancora aperti, non potendo contare su fondi pubblici non era così scontato, l’accoglienza si regge solo sulle donazioni e sulla sensibilità della comunità, che devo dire continua a sostenere generosamente il progetto con sempre maggiore convinzione, il che è un riconoscimento alla nostra serietà. Oltre al mantenimento degli utenti, che spesso non possono contare su una situazione lavorativa stabile, ci sono le utenze e le spese vive, come spese sanitarie, percorsi psicologici, acquisti di libri scolastici. L’unità abitativa è stata messo a disposizione, in comodato d’uso gratuito, dal Comune di Reggio Emilia e Acer e già non dover pagare un affitto è un grande aiuto.
Quante persone avete accolto in questi due anni di attività?
Abbiamo tolto dalla strada una dozzina di persone. Ovviamente maggiorenni ma tutte molte giovani una fascia d’età compresa tra i 18 e i 30 anche se la maggior parte era under 25. Attualmente ospitiamo quattro persone tra 19 e i 24 anni, alcuni hanno identità in transizione mentre altri sono di origine straniera. Oltre alla casa, solo nel 2023, abbiamo sostenuto altre 33 persone nell'acquisto di farmaci, vestiti, spese mediche e derrate alimentari, per lo più si tratta di persone LGBTQI+ che fanno parte del nostro gruppo migranti.
Chi si rivolge a voi che tipo di aiuto chiede?
Nei casi più fortunati si tratta di un’ospitalità breve, una sorta di ritirata strategica di qualche settimana in modo che la persona possa rinegoziare un equilibrio familiare. Tuttavia, nella maggior parte dei casi si tratta di ospitalità più lunghe, persone che si sono dovute allontanare da casa a causa di un rifiuto familiare, culturale che sfocia in situazioni estremamente ostili a in alcuni casi violente.
Come ricevete le richieste di ospitalità?
Ci sono diverse vie attraverso le quali entriamo in contatto con le persone in difficoltà: i servizi sociali o le Unità di strada che essendo a contatto con realtà marginali intercettano immediatamente queste situazioni di fragilità. La richiesta di ospitalità deve però sempre venire dalla persona stessa, maggiorenne che accetta liberamente le regole di convivenza della casa.
Le vittime dell’odio e dell’ignoranza, spesso giovanissimi traditi e marginalizzati dagli affetti famigliari, finiscono spesso in situazioni limite, come si può creare una sinergia positiva con le forze di polizia per individuare velocemente queste situazioni?
Con le forze di polizia si collabora attivamente. L’attuale situazione legislativa nazionale, tuttavia, non riconosce i crimini d’odio commessi nei confronti della comunità lgbtqia+ tutto ciò influisce su chi subisce un reato e facendo percepire una sorta di inutilità della denuncia. Inoltre, esiste una diffidenza delle vittime dettata dalla paura di trovarsi in un ambiente giudicante. A Reggio Emilia l’azione di mediazione dell’associazione che fa da ponte tra le vittime e gli agenti sempre stata accolta in modo positivo e con grande sensibilità. Per attivare una maggiore protezione dalle discriminazioni e crimini d’odio occorrerebbe un numero di telefono nazionale gestito da forze di polizia con personale formato in grado di ascoltare e dare indicazioni alle vittime su come muoversi. Sarebbe un grosso passo avanti anche per migliorare i rapporti di fiducia con il mondo delle Forze dell'Ordine. Inoltre, in generale in Italia su questi temi occorre una maggiore formazione di tutti gli operatori in divisa, conoscere aiuta a comprendere.
Il futuro di Casa Arcobaleno?
Abbiamo cominciato con una casa con 4 posti ma inserendo solo due ospiti all'inizio, il sogno sarebbe avere la disponibilità di fondi strutturali, possibilmente nazionali, per raddoppiare i posti letto, offrendo alle persone in situazioni di estrema fragilità non solo un posto sicuro ma una équipe professionale in modo da rispondere a bisogni più complessi che non solamente il tetto sulla testa.
In Italia le case arcobaleno, nate con l’intento di dare una dimora temporanea a chi è vittima di discriminazioni per il proprio orientamento sessuale o identità di genere, sono una decina. A Reggio Emilia, come su altri territori, si tratta di strutture che sopravvivono unicamente grazie alle donazioni. Chi volesse contribuire a Casa, potrà farlo tramite donazione direttamente dal sito https://arcigayreggioemilia.it/sostienici/ oppure su conto corrente intestato a “Comitato Provinciale Arcigay Gioconda”, Iban IT62T0850912801028010020324, causale Donazione Casa Arcobaleno Pier Vittorio Tondelli. Tutte le informazioni sono disponibili sul sito www.arcigayreggioemilia.it
Eravamo tra i 20mila del Toscana Pride, sabato 7 settembre. Fra quei ventimila c'era anche Polis Aperta, con il nostro striscione e con i nostri corpi "indomitə e fierə” liberi e libere di essere noi e di rivendicare questa libertà anche all'interno del nostro posto di lavoro. Liberi e libere di essere noi con la divisa che portiamo perché consapevoli di rappresentare nel profondo i valori costituzionali di pluralismo e democrazia. Un grande ringraziamento va all'organizzazione del Toscana Pride per aver creduto nelle soggettività plurali del movimento senza mai arretrare di un passo. E' stata una bellissima esperienza, grazie soprattutto alle persone che vedendoci passare ci hanno applaudito e sostenuto: noi abbiamo rotto il silenzio ma i cambiamenti reali che vogliamo da questa società si raggiungono solo camminando insieme

