Siamo di fronte all’ennesimo pesante attacco alla comunità Lgbtqia+ che non ha altri fini se non la creazione fittizia di un nemico, con la negazione di tutte le identità che non rientrano nel paradigma patriarcale eteronormato. Il Ddl Varchi, approvato in via definitiva dal Parlamento, mette fuori legge le famiglie che si rivolgono alle Gpa anche i stati dove la gestazione per altri è normata e legale. Un provvedimento giuridicamente assurdo e socialmente pericoloso. Un’assurdità secondo il diritto perché alla pretesa di creare un “reato universale” non corrisponde una giurisprudenza in grado di normare ciò che avviene legalmente in altri stati. Pericoloso perché siamo di fronte ad una legge che cela un attacco propagandistico alla comunità Lgbtqia+ il cui chiaro intento è quello di colpevolizzare e mettere all’indice tutte le identità non conformi al loro modello di società. Una visione medioevale che non solo non corrisponde all’attuale spaccato delle società ma che come un boomerang rischia peggiorare il domani di tutti i cittadini e le cittadine. In una società, infatti, dove l’ombra dell’inverno demografico pesa come un macigno sul futuro, chi legifera preferisce punire le minoranze invece di occuparsi di promuovere una reale salute riproduttiva, riformare la legge sulla adozioni consentendole anche a single o coppie Lgbtqia+ e agevolare le plurali forme di famiglie che, di fatto, già esistono all’interno della nostra società e che, ogni giorno, si sperticano fra mille difficoltà per consegnare alle giovani generazioni una società migliore e un futuro degno di questo nome.
La Casa Arcobaleno di Reggio Emilia, intitolata a Pier Vittorio Tondelli scrittore reggiano icona del movimento, ha aperto i battenti il 20 novembre del 2022 in occasione del TdoR, transgender day of remembrance, da allora, in poco meno di due anni, ben dodici persone hanno chiesto aiuto alla residenza reggiana per sfuggire a contesti familiari con situazioni critiche, a volte apertamente ostili o violente. Ragazzi e ragazze discriminati cacciati di casa o minacciati per il loro orientamento sessuale o per un’identità di genere non conforme. La residenza voluta da un progetto di Arcigay Gioconda di Reggio Emilia è un’unità abitativa messa a disposizione dal Comune e Acer in grado di ospitare fino a quattro persone, è interamente finanziata grazie alle donazioni e gestita da volontari che, per aiutare chi sfugge da famiglie o situazioni gravemente respingenti, lavorano ogni giorno a stretto contatto con le istituzioni e le forze di polizia. Nel novembre del 2022, durante l’assemblea autunnale di Polis Aperta svoltasi appunto a Reggio Emilia, l’associazione fece una donazione a favore del progetto e nell’occasione diversi soci contribuirono di tasca propria alla nascita di questo prezioso posto sicuro. Oltre a tracciare un primo bilancio dell’attività della casa abbiamo aperto una discussione con Albero Nicolini, coordinatore casa arcobaleno e responsabile dell’Area sociale Arcigay Reggio Emilia, per comprendere quali sinergie è possibile mettere in campo, in quanto agenti di polizia, per accompagnare chi si trova ad affrontare un momento tanto terribile a causa della propria identità di genere o dell’orientamento sessuale e affettivo.
Nicolini, dopo due anni di attività di Casa Arcobaleno, è possibile tracciare un primo bilancio?
Uno degli aspetti positivi e che siamo ancora aperti, non potendo contare su fondi pubblici non era così scontato, l’accoglienza si regge solo sulle donazioni e sulla sensibilità della comunità, che devo dire continua a sostenere generosamente il progetto con sempre maggiore convinzione, il che è un riconoscimento alla nostra serietà. Oltre al mantenimento degli utenti, che spesso non possono contare su una situazione lavorativa stabile, ci sono le utenze e le spese vive, come spese sanitarie, percorsi psicologici, acquisti di libri scolastici. L’unità abitativa è stata messo a disposizione, in comodato d’uso gratuito, dal Comune di Reggio Emilia e Acer e già non dover pagare un affitto è un grande aiuto.
Quante persone avete accolto in questi due anni di attività?
Abbiamo tolto dalla strada una dozzina di persone. Ovviamente maggiorenni ma tutte molte giovani una fascia d’età compresa tra i 18 e i 30 anche se la maggior parte era under 25. Attualmente ospitiamo quattro persone tra 19 e i 24 anni, alcuni hanno identità in transizione mentre altri sono di origine straniera. Oltre alla casa, solo nel 2023, abbiamo sostenuto altre 33 persone nell'acquisto di farmaci, vestiti, spese mediche e derrate alimentari, per lo più si tratta di persone LGBTQI+ che fanno parte del nostro gruppo migranti.
Chi si rivolge a voi che tipo di aiuto chiede?
Nei casi più fortunati si tratta di un’ospitalità breve, una sorta di ritirata strategica di qualche settimana in modo che la persona possa rinegoziare un equilibrio familiare. Tuttavia, nella maggior parte dei casi si tratta di ospitalità più lunghe, persone che si sono dovute allontanare da casa a causa di un rifiuto familiare, culturale che sfocia in situazioni estremamente ostili a in alcuni casi violente.
Come ricevete le richieste di ospitalità?
Ci sono diverse vie attraverso le quali entriamo in contatto con le persone in difficoltà: i servizi sociali o le Unità di strada che essendo a contatto con realtà marginali intercettano immediatamente queste situazioni di fragilità. La richiesta di ospitalità deve però sempre venire dalla persona stessa, maggiorenne che accetta liberamente le regole di convivenza della casa.
Le vittime dell’odio e dell’ignoranza, spesso giovanissimi traditi e marginalizzati dagli affetti famigliari, finiscono spesso in situazioni limite, come si può creare una sinergia positiva con le forze di polizia per individuare velocemente queste situazioni?
Con le forze di polizia si collabora attivamente. L’attuale situazione legislativa nazionale, tuttavia, non riconosce i crimini d’odio commessi nei confronti della comunità lgbtqia+ tutto ciò influisce su chi subisce un reato e facendo percepire una sorta di inutilità della denuncia. Inoltre, esiste una diffidenza delle vittime dettata dalla paura di trovarsi in un ambiente giudicante. A Reggio Emilia l’azione di mediazione dell’associazione che fa da ponte tra le vittime e gli agenti sempre stata accolta in modo positivo e con grande sensibilità. Per attivare una maggiore protezione dalle discriminazioni e crimini d’odio occorrerebbe un numero di telefono nazionale gestito da forze di polizia con personale formato in grado di ascoltare e dare indicazioni alle vittime su come muoversi. Sarebbe un grosso passo avanti anche per migliorare i rapporti di fiducia con il mondo delle Forze dell'Ordine. Inoltre, in generale in Italia su questi temi occorre una maggiore formazione di tutti gli operatori in divisa, conoscere aiuta a comprendere.
Il futuro di Casa Arcobaleno?
Abbiamo cominciato con una casa con 4 posti ma inserendo solo due ospiti all'inizio, il sogno sarebbe avere la disponibilità di fondi strutturali, possibilmente nazionali, per raddoppiare i posti letto, offrendo alle persone in situazioni di estrema fragilità non solo un posto sicuro ma una équipe professionale in modo da rispondere a bisogni più complessi che non solamente il tetto sulla testa.
In Italia le case arcobaleno, nate con l’intento di dare una dimora temporanea a chi è vittima di discriminazioni per il proprio orientamento sessuale o identità di genere, sono una decina. A Reggio Emilia, come su altri territori, si tratta di strutture che sopravvivono unicamente grazie alle donazioni. Chi volesse contribuire a Casa, potrà farlo tramite donazione direttamente dal sito https://arcigayreggioemilia.it/sostienici/ oppure su conto corrente intestato a “Comitato Provinciale Arcigay Gioconda”, Iban IT62T0850912801028010020324, causale Donazione Casa Arcobaleno Pier Vittorio Tondelli. Tutte le informazioni sono disponibili sul sito www.arcigayreggioemilia.it
Eravamo tra i 20mila del Toscana Pride, sabato 7 settembre. Fra quei ventimila c'era anche Polis Aperta, con il nostro striscione e con i nostri corpi "indomitə e fierə” liberi e libere di essere noi e di rivendicare questa libertà anche all'interno del nostro posto di lavoro. Liberi e libere di essere noi con la divisa che portiamo perché consapevoli di rappresentare nel profondo i valori costituzionali di pluralismo e democrazia. Un grande ringraziamento va all'organizzazione del Toscana Pride per aver creduto nelle soggettività plurali del movimento senza mai arretrare di un passo. E' stata una bellissima esperienza, grazie soprattutto alle persone che vedendoci passare ci hanno applaudito e sostenuto: noi abbiamo rotto il silenzio ma i cambiamenti reali che vogliamo da questa società si raggiungono solo camminando insieme
Il Pride month è iniziato, Polis Aperta parteciperà alla sfilata di Roma nel segno del rispetto e dell’inclusione per non smettere mai di lottare per una pari dignità sociale di tuttə le persone
Le dichiarazioni di Riccardo Saccotelli, apparse sulle pagine di Sindacato dei Militari demoliscono la narrazione strumentalizzata, di chi vorrebbe dipingere tutti gli appartenenti a Esercito e Corpi di Polizia come omofobi e propagatori della cultura patriarcale della prevaricazione. Saccotelli carabiniere in congedo, ferito durante l’attentato a Nassiriya che il 12 novembre del 2003 costò la vita a 28 persone tra cui numerosi militari italiani, si è esposto pubblicamente criticando le prese di posizione di alcuni soggetti che, nonostante la presa di distanza dell’Esercito italiano e i provvedimenti di sospensione, nascondendosi dietro gradi e divise vorrebbero ridefinire i criteri di “normalità” spacciando discutibili e antiscientifiche opinioni personali, palesemente in contrasto con i principi Costituzionali, per “verità”.
“Le recenti dichiarazioni del generale Vannacci – ha dichiarato Saccotelli - con cui esterna i suoi singolari criteri di normalità, appaiono estremamente gravi ove si consideri che colpiscono anche la comunità Lgbt presente nelle Forze armate e nelle Forze di polizia. Comunità che è una realtà innegabile, in cui l’essere omosessuali non è mai stato un impedimento per chi, come me, porta sul suo corpo le cicatrici del servizio reso per difendere la Patria e affermare quei principi di democrazia e civiltà che permettono oggi a chiunque di poter manifestare liberamente il proprio pensiero nel rispetto dell’altro”.
(fonte:https://lnx.sindacatodeimilitari.org/riccardo-saccotelli-io-carabiniere-omosessuale-ho-difeso-la-patria-come-vannacci/)
La società italiana è in continua evoluzione e, con essa, anche gli enti che compongono lo Stato e i lavoratori in divisa che ne fanno parte. L’attenzione alle tematiche riguardanti il rispetto delle minoranze, i diritti civili e il gender gap, tutti principi contenuti nella Costituzione Italiana che militari e poliziotti hanno giurato di difendere, ha scatenato il dibattito tra chi si fa portavoce del diritto all’autodeterminazione e una minoranza di soggetti che vorrebbero riportare le lancette dell’orologio indietro di 70 anni diffondendo preconcetti da bar senza alcun fondamento scientifico.
Ebbene Polis Aperta è convinta che il cambiamento in atto non possa essere fermato con meschine strumentalizzazioni. Dentro e fuori le istituzioni i principi di democrazia, pluralità e autodeteminazione non saranno silenziati dalle narrazioni fallaci dei pochi che non riescono a fare i conti con il presente.
L’unico atteggiamento criminale fino ad oggi dimostrato, e scritto nero su bianco da una sentenza del Tar del Piemonte, è quello delle istituzioni che hanno preteso una verifica sull’orientamento sessuale di un lavoratore. Ed è un bene che lo Stato ora debba rispondere anche economicamente di questa palese discriminazione, anche se nessuna somma in denaro potrà mai risarcire la sofferenza psichica e fisica patita da chi si è trovato a lavorare in un ambiente ostile. Al di là della vicenda lavorativa e delle contestazioni disciplinari sull’operato dell’agente, chiarite, come prevede la legge, da un procedimento interno al Corpo e finite, come si legge nella sentenza del tribunale amministrativo piemontese in un nulla di fatto, cercare di mettere in connessione l’idoneità lavorativa con l’orientamento sessuale è una inaccettabile violazione del diritto dei lavoratori di qualunque settore. Un “atto arbitrario e privo di un valido supporto giuridico, oltreché tecnico-scientifico” come riporta la stressa sentenza del Tar, un atto che macchia la divisa che portiamo proprio perché arriva da quello Stato che serviamo e che dovrebbe considerarci tutte persone con pari dignità sociale, eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Polis Aperta ha preso parte all'incontro di Barcellona per combattere i crimini di odio. Il 18 ed il 19 marzo all'interno del Centre Lgbti di Barcellona si è tenuto l'incontro organizzato da Egpa Police e dal Council of Europe con le associazioni Lgbtqia+ per forze di polizia e forze armate, tra cui Polis Aperta grazie alla partecipazione di Monica Giorgi. Finalità dell'incontro l'organizzazione di gruppi di lavoro e di discussione all'interno dei quali potessero emergere suggerimenti per migliorare e adeguare alle nuove realtà sociali il manuale "Policing Hate Crime against Lgbti persons - training for a Professional Police Response". Dal confronto è emersa l'importanza di un dialogo continuo e vivo tra società civile, associazioni e forze di polizia, allo scopo di fornire alle vittime di crimini d'odio, condizioni che favoriscano l'ascolto e l'accoglimento da parte di operatori preparati e sensibilizzati sul tema. Per raggiungere tale risultato gli attori sociali devono fare rete costruendo network in grado di dare risposte alle vittime. Il nostro lavoro, come operatori di polizia, è quello di far rispettare la legge in questo caso, tuttavia, il tema è il rispetto dei diritti umani, ed è riduttivo pensare che si tratti "solo" di rivendicazioni legate alla comunità Lgbtqia+ quando si tocca la sfera dei diritti inalienabili della persona. Sicuramente, il lavoro di un agente di polizia quando si trova di fronte alla vittima di una crimine non è semplice, per tale motivo è importante che la comunità sappia che siamo attivisti e possa fare affidamento sul nostro operato. In prospettiva questa visibilità avrà riflessi positivi anche a livello lavorativo: i crimini d'odio devono essere combattuti, ma soprattutto occorre prevenirli per costruire un futuro migliore. "The more you train, the better you gain".
Il manuale è scaricabile gratuitamente al seguente link:
https://edoc.coe.int/en/lgbt/7405-policing-hate-crime-against-lgbti-persons-training-for-a-professional-police-response.html
La lentezza e la resistenza ai cambiamenti sono radicate nella nostra cultura. E nei nostri ambienti lavorativi persistono pregiudizi e stereotipi nei quali è prima di tutto immersa la nostra società: vi sarà capitato di sentire colleghi e, purtroppo, talvolta anche colleghe - perché per essere maschilisti non occorre per forza di cose essere maschi – dirsi conviti che se una collega si veste per esempio in un certo modo, ciò significhi inequivocabilmente una sua disponibilità sessuale, oppure che lo fa perché ha ottenuto o vuole ottenere qualcosa. Troppe volte abbiamo sentito “misurare” la professionalità delle colleghe valutandole anche in base al presunto numero di partners avuti.
Chi non vive la discriminazione non capisce la necessità e l’importanza di determinate questioni. La parte della popolazione che detiene il privilegio, non si accorge che esiste una marginalizzazione di una certa categoria, che non sempre è una minoranza – nel caso delle donne non lo è per esempio, le donne sono una minoranza all’interno delle Forze Armate e di Polizia ma costituiscono il 50% della popolazione mondiale – e quando ciò viene fatto notare, le cose che ci vengono dette sono più o meno sempre le solite: “Ah ma siete esagerati, siete esagerate, vabbé ma non sarà proprio così, ormai la parità si è raggiunta, eh vabbé però che noia, non è che poi vivete così male, dipende anche da te come vi ponete, forse quello che pensate di subire in realtà lo subite perché siete dei rompiscatole, non perché donna/gay/nera”. Questa cosa qua, negare la discriminazione dell’altro nei termini in cui l’altro la vive, è un modo di esercitare il privilegio.
Come Polis Aperta non smetteremo di lottare per i nostri diritti non solo perché sia nella nostra professione che nell’ambito di questa associazione lavoriamo al servizio della giustizia sociale, ma anche perché non farlo priverebbe le generazioni future degli strumenti per difendere quei diritti.
Oggi è l’8 marzo, non la "festa della donna", ma la lotta per un mondo meno discriminante.
L’associazione Polis Aperta ritiene che le frasi transfobiche pronunciate dal consigliere comunale Samuele Piscina non solo siano vergognose per il contenuto di odio e pregiudizio che veicolano nei confronti di una categoria già esposta a fragilità, ma inaccettabili da chi, utilizza una sede istituzionale non per rappresentare i cittadini, ma per cercare di istituzionalizzare la violenza. Una violenza nelle parole e nei contenuti perpetrata strumentalizzando e decontestualizzando operazioni di polizia di quasi un decennio or sono. Chi lavora vestendo una divisa ha giurato sulla Costituzione italiana di difendere le regole della convivenza democratica e la popolazione “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” come ricorda l’Articolo 3 della nostra Costituzione. E’ dunque indubbio che sia oltremodo vergognoso “tirare per la giacchetta” gli operatori di un corpo sperando di nascondere un’evidente e intollerabile personale transofobia dietro al dito di un presunto pericolo sociale. La nostra democrazia da sempre promuove la pluralità dei soggetti all’interno del tessuto sociale, se chi rappresenta le istituzioni non è in grado di svolgere questo importante compito, si dimetta. E si dimetta subito.
Durante il regime nazista tedesco numerosi omosessuali furono internati in campi di concentramento insieme con Ebrei, Rom, Sinti e Testimoni di Geova. Lo sterminio degli omosessuali nei campi di concentramento nazisti è stato indicato come Omocausto.
Negli anni che vanno tra il 1933 e il 1945 almeno 100.000 uomini furono arrestati come omosessuali, di cui circa la metà furono condannati; la maggior parte di questi ha trascorso il periodo di detenzione assegnato nelle prigioni regolari, ma tra i 5 e i 15.000 hanno finito con l'essere internati nei vari campi. Solo a partire dagli anni '80 del '900 si è cominciato a riconoscere anche questo episodio di storia inerente alla più ampia realtà della persecuzione nazista. Nel 2002 infine il governo tedesco ha chiesto ufficialmente scusa alla comunità LGBTIQ+.
Prima dell'avvento del Terzo Reich, Berlino veniva considerata una città liberale con molti locali gay, nightclub e spettacoli di cabaret. C'erano molti ritrovi dove turisti e residenti eterosessuali e omosessuali potevano praticare il crossdressing.
Il primo movimento omosessuale tedesco venne rapidamente eliminato con l'avvento al potere del partito nazionalsocialista di Adolf Hitler. L'ideologia nazista reputò l'omosessualità incompatibile con i propri ideali considerando che le relazioni sessuali dovessero “[...] essere finalizzate al processo riproduttivo, essendo loro scopo la conservazione e il prosieguo dell'esistenza del Volk [il popolo], piuttosto che la realizzazione del piacere dell'individuo”.
Ernst Röhm, un uomo che Hitler stesso percepì come una possibile minaccia alla propria supremazia, comandante della prima milizia nazista, le Sturmabteilung (conosciute come SA), esibì in modo discreto la propria omosessualità fino al 1925.
Nel tempo però Hitler rivide questa posizione quando sentì minacciato il proprio potere da parte di Röhm. Il 30 giugno1934, durante la “Notte dei lunghi coltelli”, Hitler ordinò l'epurazione di coloro che lo minacciavano. Tra questi figurava Röhm e il suo omicidio diede a Hitler il pretesto per compiere ulteriori azioni contro le SA al fine di renderle innocue e docili al suo potere. Dopo aver consolidato la sua posizione di leader ed essere diventato Cancelliere, Hitler incluse la categoria degli omosessuali tra coloro che dovevano essere inviati nei campi di concentramento durante la Shoah.
omosessuali. Nel 1936 Heinrich Himmler, comandante delle SS, creò l'Ufficio Centrale del Reich per la lotta all'omosessualità e all'aborto. Il decreto costitutivo di questo nuovo ufficio recitava “[...] Le attività omosessuali di una non trascurabile parte della popolazione costituiscono una seria minaccia per la gioventù. Tutto ciò richiede l'adozione di più incisive misure contro queste malattie nazionali”.
Ovviamente i rapporti omosessuali, considerati “sterili” ed “egoistici” vennero visti come un tradimento alle politiche demografiche di potenziamento del popolo non essendo i gay in grado di riprodursi e perpetuare così la razza ariana. Per la stessa ragione anche la masturbazione venne considerata dannosa al Terzo Reich, seppur trattata con minor severità.
Quegli omosessuali che non dissimulavano il proprio orientamento sessuale o che non erano disposti a contrarre matrimoni di convenienza incominciarono così ad essere "raccolti" e inviati a tempo indeterminato - come metodo curativo - a duri campi di lavoro in campagna. Più di un milione di tedeschi sospettati di "attività omosessuali" sono stati presi di mira, di cui almeno 100.000 sono stati arrestati, interrogati e processati e non meno di 50.000 condannati alla carcerazione. Altre centinaia di uomini sono stati sottoposti a castrazione o sterilizzazione obbligatoria dietro ordine diretto dei tribunali.
Hitler supponeva che l'omosessualità fosse un "comportamento degenerato" che rappresentava una minaccia alla capacità demografica dello stato e ne che danneggiava il "carattere virile". I gay vennero denunciati come "nemici dello stato" e accusati come "corruttori" della moralità pubblica che mettevano in pericolo il tasso di natalità della Germania.
I gay soffrirono di un trattamento particolarmente crudele all'interno dei campi di concentramento; questo può essere attribuito sia al duro atteggiamento delle SS di guardia nei confronti dei gay, come pure agli atteggiamenti omofobici ben radicati nella società nazista. Alcuni morirono a seguito di feroci bastonature, in parte effettuate da altri deportati.
I medici nazisti utilizzarono spesso i gay in esperimenti "scientifici" atti a scoprire il "gene dell'omosessualità" e poter così guarire i futuri bambini ariani che fossero stati omosessuali. Particolarmente crudeli le sperimentazioni del medico delle SS Carl Vaernet che effettuò uno studio su di un preparato a base di ormoni di sua invenzione sugli internati omosessuali nel campo di Buchenwald: circa l'80% degli internati sottoposti alla "cura" a base di massicce dosi di testosterone non sopravvisse.
Le donne non vennero legalmente perseguitate dalla legge nazista contro gli omosessuali: il paragrafo 175 discriminava infatti esclusivamente l'omosessualità maschile.
Di là dalle leggi, la persecuzione e la repressione delle lesbiche va inquadrata nella più ampia concezione nazionalsocialista secondo cui il ruolo delle donne era limitato alla famiglia e alla cura dei figli e per questo era considerato più semplice persuaderle o forzarle ad accettare un orientamento di tipo eterosessuale.
Le lesbiche vennero viste come un pericolo ai valori dello stato e spesso marchiate dallo status di "asociali" (indossando in tal caso il triangolo nero anziché il triangolo rosa). La qualità di lesbica era considerata spesso un'aggravante rispetto appunto all'asocialità o ad altre imputazioni (ovvero all'essere ebree, ladre, prostitute, ecc.).
Come per tutti gli elementi indesiderati, anche per gli omosessuali si aprirono i cancelli dei campi di concentramento. A migliaia (il numero preciso non si saprà probabilmente mai) furono costretti a subire aberranti esperimenti medici, torture ed umiliazioni mentre quelli più forti che riuscivano a resistere, venivano soppressi nelle camere a gas. Un dramma, quello degli omosessuali, che non terminò neppure con la fine della guerra. Considerati “colpevoli” anche da chi aveva liberato i campi di sterminio, molti continuarono a scontare in carcere le pene inflitte dal regime nazista, così, nel timore di ulteriori persecuzioni, per la vergogna imposta da secoli di repressione, chi visse in prima persona l’Omocausto si chiuse nel silenzio. Per decenni del dramma di migliaia di uomini e donne imprigionati, torturati e uccisi per il loro modo non eterosessuale di amare non si seppe più nulla.
A partire dal 1936 vennero indicati con un triangolo rosa (era un po' più grande rispetto agli altri triangoli attribuiti ai diversi deportati, affinché fosse ben visibile anche da lontano), come il colore usato dalle ragazzine dell’epoca, che serviva per ridicolizzare la mascolinità. La posizione degli internati omosessuali fu fin dall’inizio tra le peggiori: in molti casi essi costituirono l’ultimo gradino della gerarchia del lager. Oggetto di violenze immotivate, trattati con particolare disprezzo dai nazisti e spesso anche dagli altri detenuti, i deportati omosessuali vennero destinati a lavori particolarmente duri, nella convinzione che in tal modo potessero riacquisire la loro mascolinità perduta. Heinz Dörmer, ex deportato omosessuale, ha dichiarato
“Quanto più spesso e più forte (le SS) ci picchiavano, tanto più aumentava la considerazione per loro. (…) Eravamo considerati una razza infame ed essi potevano fare di noi tutto ciò che volevano. Se avessero ucciso qualcuno di noi sarebbero stati addirittura lodati e noi dovevamo stare a guardare”.
Heinz Heger, un altro ex deportato omosessuale, ricorda
“un omosessuale che entrava in ospedale aveva pochissime probabilità di uscirne vivo. All’ospedale i deportati col triangolo rosa servivano da cavie per le ricerche e gli esperimenti medici che il più delle volte finivano con la morte”.
Le lesbiche che non vollero o non poterono nascondersi dovettero pagare un caro prezzo. A partire dal 1936 molte furono rinchiuse in ospedali psichiatrici e costrette a seguire programmi di rieducazione. Per tante altre si aprirono le porte dei campi di sterminio. Non si sa con esattezza quante furono le lesbiche internate nei campi di concentramento e di sterminio. Nella maggior parte dei casi il loro internamento avveniva con motivazioni ufficiali diverse dall’omosessualità: generalmente venivano classificate come “asociali”, come prigioniere politiche, come ebree, come comuniste, in tanti casi come prostitute. Per questo motivo molte furono costrette a lavorare nei bordelli dei lager. Non esistendo come categoria, le lesbiche non furono contraddistinte dal triangolo rosa, come accadeva per gli uomini. Alla fine della guerra questo sterminio invisibile venne totalmente rimosso dalla memoria collettiva: qualche ricerca ha iniziato a fare luce solo in anni recenti.
La fine della guerra e la liberazione dal nazismo e dal fascismo cambiarono ben poco la condizione degli omosessuali. Per molti, la liberazione dei campi di sterminio non significò affatto il ritorno alla libertà. Al contrario, accadde che molti triangoli rosa passarono dai campi di sterminio al carcere dove avrebbero finito di scontare la pena inflitta in base al Paragrafo 175: le autorità alleate ritennero che il castigo imposto fosse meritato e pertanto dovesse essere scontato fino in fondo. A nessun omosessuale, inoltre, venne concesso un indennizzo per quello che aveva subìto. La Repubblica Federale Tedesca non abolì il Paragrafo 175: si limitò ad alleggerirlo degli inasprimenti approvati dal regime nazista. Venne riformato nel 1969 ma verrà abrogato definitivamente solo nel 1994. Nel frattempo, 50.000 omosessuali verranno condannati per il proprio orientamento sessuale.
Anche i libri di storia rimossero la memoria dell’Omocausto. Molte associazioni di ex deportati, inoltre, rifiutarono (e alcune rifiutano tuttora) di considerare tali gli ex triangoli rosa. Il cammino per il riconoscimento degli omosessuali come vittime della follia nazista fu lungo.
Quando i cancelli di Auschwitz e degli altri lager vennero abbattuti, molti dei superstiti marchiati con il triangolo rosa preferirono tacere il vero motivo del loro internamento, diventando vittime senza voce e senza giustizia.
Il ricordo della Shoah non riguarda solo gli ebrei ma l'intera umanità. Ricordare e commemorare le vittime della Shoah non significa affattotrascurarealtri genocidi,né tantomenostabilire inutili ‘priorità’ tra stermini e dolori di un popolo piuttosto che dialtripopoli.
Per maggiori approfondimenti su questo tema si invita il lettore a fare riferimento alla cospicua e numerosa letteratura di riferimento.
BIBLIOGRAFIA
Scovino C., Fredy Hirsch. Un educatore ad Auschwitz. Omocausto: una storia dimenticata, La Meridiana, Molfetta (BA), 2023