Polis Aperta celebra il mese del Pride con nuova e più aggiornata edizione del Vademecum contro i crimini d’odio “Stop the silence” per promuovere una cultura dei diritti sul lavoro sia e nella vita e difendersi contro i soprusi. Un piccolo contributo con i riferimenti di legge, da oggi anche sul sito di Polis Aperta scaricandolo dal link:
Dopo il primo vademecum creato nel 2011 e aggiornato nel 2020, l’edizione del 2025 tiene conto delle modifiche legislative relative al “Codice rosso” rafforzato del 2023. Un pieghevole facile da portare con se studiato come una miniguida per orientarsi sugli strumenti legislativi a disposizione per combattere i crimini d’odio basti su orientamento sessuale e affettivo e identità di genere. Nonostante in Italia si senta a livello legislativo e civile la grave mancanza di una legge specifica che preveda aggravanti per tali reati, legge per cui Polis Aperta assieme alle associazioni della società civile si batte da anni, i crimini d’odio rimangono comunque reati perseguibili dalla legge. E chi si macchia di tali ingiustizie deve comunque rispondere delle proprie azioni. Far emergere il più possibile questi atti deplorevoli è uno degli obiettivi in cui Polis Aperta crede fermamente. Per il senso di giustizia, che da sempre appartiene a chi sceglie di indossare una divisa, e perché denunciare un reato rimane la via principale per scrivere nero su bianco quanto sia necessario ottenere una tutela legislativa specifica, purtroppo ancora assente nel nostro ordinamento giuridico. Sono quotidiane, e sotto gli occhi di tutti, le notizie che raccontano di violenze, soprusi, discriminazioni e umiliazioni ai danni di persone lgtbqia+ di ogni età. Ondate di odio che creano sofferenze soffocate nel silenzio portando anche a tragici epiloghi come l’omicidio o il suicidio. Polis Aperta ritiene che tutto ciò non sia degno di un Paese civile: la violenza in ogni sua forma deve essere fermata ad ogni costo. Questo vuole essere l’obiettivo del nostro piccolo contributo, in clima internazionale e nazionale sempre più ostile alla comunità Lgbtqia+ informare è il primo passo per difendere giorno per giorno i diritti faticosamente ottenuti e per aprire la strada a conquiste civili che non ci rendano mai più cittadini di serie B. Polis Aperta ringrazia chiunque vorrà condividere e la brochure contribuendo a diffondere la cultura della convivenza civile, della legalità e del rispetto delle identità plurali.
Polis Aperta Odv è un'associazione di volontariato, nata nel febbraio 2005, per volontà di un gruppo di persone in servizio nelle forze di polizia e nelle forze armate, e che si sono trovate per condividere, oltre al lavoro, l’idea di una società più inclusiva come quella rappresentata dal mondo lgbtqia+. La mission di Polis Aperta combattere ogni tipo di discriminazione, in particolare la lotta contro gli stereotipi fondati sull'orientamento sessuale e sull'identità di genere che inquinano la società e gli ambienti lavorativi cercando di soffocare l’unicità di ogni individuo. Gli strumenti che negli anni l’associazione ha messo in campo sono incentrati su una capillare diffusione della cultura della legalità e del vivere civile. Polis Aperta, attraverso convegni e incontri pubblici, intende dialogare con cittadine e cittadini, costruire ponti tra la società civile e chi ha scelto il mestiere di garantire la sicurezza della società stessa. Nella convinzione che solo cambiando la percezione della funzione di un corpo di polizia possiamo gettare le basi una polizia aperta in una società aperta, dove chi subisce un reato o un sopruso, legato all’identità di genere o all’orientamento sessuale, si senta libero di denunciare e protetto da tutto il sistema della sicurezza.
Non è in alcun modo tollerabile che un agente in servizio utilizzi un abbigliamento con simboli nazisti: chi lavora in divisa porta sul proprio corpo l’onere e l’onore di rappresentare le Istituzioni democratiche nate dalla lotta al nazifascismo. Un capo d’abbigliamento vergognoso che mai avremmo voluto vedere indossato da un agente. Un gesto gravissimo che in un attimo ha calpestato i principi democratici sanciti della Costituzione - che pur ogni agente ha giurato di difendere - ha fatto a pezzi l’inviolabile principio di neutralità di ogni operatore e operatrice minando la fiducia delle persone nelle forze di polizia. Fiducia costruita faticosamente dalle e dagli agenti, giorno per giorno, a stretto contatto con le persone cercando di trovare soluzioni ai problemi, non di provocare risse. Un gesto sconsiderato che chiediamo sia punito senza sconti: una provocazione di tale portata all’interno di una manifestazione già delicata è benzina sul fuoco. Provocazione pura e puerile che rischiava di fomentare gli scontri e mettere ulteriormente a rischio l’incolumità delle e dei manifestanti e del personale in servizio che quegli scontri e quella rabbia si sarebbero trovati fronteggiare. Per quanto le nostre uniformi ci rendano simili è il nostro agire che traccia un solco profondo tra l’abuso e il rispetto, l’insulto e il dovere, chi non è capace di distinguere la giusta via non è degno della divisa.
"When i was in the military they gave me a medal for killing two men and a discharge for loving one”.
Sono le parole scolpite sulla tomba di Leonard Matlovich, veterano del Vietnam congedato con disonore per essere stato il primo militare a fare coming out. Matlovich è da sempre considerato una figura di spicco del movimento Lgbtqia+, noto per le sue battaglie a favore della comunità e soprattutto per aver combattuto l'esclusione e il licenziamento degli omosessuali dalle forze armate statunitensi. Sopra l’epitaffio, per volere dello stesso Matlovich, che preferì trasformare la propria tomba in un monumento dedicato alla memoria di tutte le persone Lgbt in divisa, nessun nome ma solo l’iscrizione “A gay Vietnam veternan”.
Oggi come allora il governo statunitense volta le spalle a quei servitor3 dello Stato che non rientrano nel proprio ideale di mascolinità tossica e patriarcale, indipendentemente dal loro senso del dovere, dai meriti sul campo e dalla dedizione che mettono ogni giorno nel loro lavoro. E’ sconcertante che alcune Istituzioni italiane, a cui spetta il compito di rappresentare tutta la cittadinanza, accolgano personaggi che, senza alcun investimento ufficiale o incarico istituzionale, sponsorizzano un concetto medioevale di lavoro all’interno delle forze di polizia e forze armate. Ritenendo idoneo al servizio solo chi si adegua al modello della forza bruta. Ebbene, chi indossa una divisa non è un gladiatore nell’arena, buono solo per malmenare o prendere schiaffi, ma si tratta di professioniste e professionisti che lavorano in contesti sociali complessi e che ogni giorno cercano di dare risposte reali ai problemi reali delle persone. A volte salvandole da contesti famigliari omotransfobici realmente violenti come l’azione che ha portato all’arresto per sequestro di persona di due genitori di una giovane 19enne segregata in casa a causa di una relazione con un ragazzo transgender. Lavorare in un corpo militare o in polizia, oggi, è rappresentare la democrazia italiana e le sue Istituzioni nate dall’impianto Costituzionale, ci auguriamo che essere un rappresentante, eletto, di queste stesse Istituzioni continui a significare rispettare e proteggere cittadin3 e lavorator3 senza sventolare anacronistiche teorie omotransfobiche, smentite da anni dalla scienza, che pretendono di determinare chi può o non può fare certi lavori indipendentemente dalla attitudini personali.
Anche per i carabinieri ritornano le unioni civili e i matrimoni in alta uniforme. Non tutti sanno, infatti, che nel 2024 il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri aveva disposto il divieto per i carabinieri, a partire dal 1 gennaio 2025, di indossare la Grande uniforme speciale, conosciuta anche come Gus, per il giorno del loro matrimonio.
Per i Carabinieri la Gus è da sempre simbolo di appartenenza e in molti si sono chiesti la motivazione di una decisione del genere. A livello mediatico, di recente si è parlato di Gus solo in relazione alle unioni civili di due militar3 dell’Arma con rispettiv3 partners, tant’è che noi di Polis Aperta qualche domanda in tal senso ce la siamo fatta.
In merito alla vicenda sono intervenute anche le sigle sindacali dell’Arma, le quali a più riprese hanno invitato il Comando generale a cambiare rotta, domandando quale fosse l’esigenza istituzionale di richiedere l'annullamento di quello che per i carabinieri è pubblicamente un atto di amore, fedeltà, credo e orgoglio per la propria uniforme.
Abbiamo appreso con gioia che il 17 febbraio scorso è stato definitivamente ripristinato l’uso della Gus per il o la militare che si sposa o che si unisce civilmente, limitandone l’uso esclusivamente alla fase della cerimonia, dunque con delle regole opportunamente più stringenti, anche per evitarne un uso poco decoroso durante feste e banchetti.
Crediamo che la possibilità sposarsi o unirsi civilmente per le coppie, anche in contesti specifici come quelli delle forze armate o altre istituzioni con uniformi, sia un passo importante verso una società più giusta e inclusiva. Il riconoscimento di un legame affettivo celebrato in uniforme tra persone dello stesso sesso simboleggia oltre che l’amore e l’impegno reciproco, il riconoscimento che l’amore non ha confini, né nelle diversità individuali né nei contesti in cui queste diversità si manifestano. Le forze armate, così come altre istituzioni, sono composte da persone di diverse origini, esperienze e identità. Pertanto, è essenziale che anche in ambito militare, come in ogni altro settore della società, venga garantita la piena parità di trattamento per tutte le coppie, comprese quelle omosessuali, che desiderano sancire il loro legame.
L’inclusività in queste cerimonie non riguarda solo l’atto dell’unione in sé, ma anche la possibilità di esprimere liberamente la propria identità e di essere accettati senza discriminazioni, rispettando la dignità di ogni individuo, a prescindere dal suo
orientamento sessuale. Quando una coppia può celebrare l’unione, anche in uniforme, il messaggio che le istituzioni mandano è forte e chiaro: l’amore e il rispetto non sono legati a stereotipi, ma si fondano sulla comprensione reciproca e sulla lotta per i diritti umani universali.
La forza di una società inclusiva risiede nella sua capacità di abbracciare le diversità e di promuovere l’uguaglianza in ogni ambito della vita. Riconoscere la celebrazione di un legame affettivo, anche in uniforme, è un simbolo di progresso, di rispetto e di accettazione che arricchisce il nostro concetto di amore e solidarietà.
In tema tema di sicurezza pubblica, le disposizioni messe in atto da questo governo, dal suo insediamento ad oggi, raccontano di un’idea di sicurezza legata indissolubilmente al concetto di repressione penale e sociale. Lo abbiamo visto fin dall’inizio con il Decreto anti-rave e il Decreto Caivano, atti normativi che manifestano un approccio rigido, panpenalista, mostrando una volontà di moralizzazione sociale verso valori univoci ed escludenti. Provvedimenti che racchiudono in sé discriminazione per le minoranze politiche e sociali, emarginazione, demonizzazione, stigma. L’assordante silenzio di azioni politiche in grado di allentare il disagio economico e sociale, causa prima dei problemi che destabilizzano la sicurezza pubblica, è altrettanto significativo. Oltre che inquietante.
Il disegno di legge in materia di sicurezza pubblica è solo l’ultimo atto, in ordine cronologico, di un modello sicurezza che è già stato ampiamente sdoganato nel nostro Paese, che ha come scopo implicito quello di soffocare il dissenso, in nome di una repressione moralizzatrice che non tollera stili di vita diversi da quelli del proprio paradigma.
L’iter parlamentare di questo disegno di legge si sta caratterizzando per le continue proposte normative che via via stanno andando ad implementarlo a seconda degli eventi politico sociali che infiammano lo scenario italiano. Ultima trovata a cui è stata data ampia pubblicità sulla carta è una ulteriore proposta normativa da incardinare nel cosiddetto Ddl Sicurezza in tema di ‘scudo penale’ per le forze di polizia. Un proposta indubbiamente a rischio incostituzionalità, che mina il principio di obbligatorietà dell’azione penale (articolo 112 della Costituzione), e il fondamentale principio di uguaglianza della nostra Costituzione (articolo 3 principi fondamentali). Un progetto di legge che ci lascia senza parole, perché in contrasto con la tutela dei diritti umani fondamentali come la vita e l’integrità fisica. Inoltre avviare un procedimento, quale atto dovuto, finalizzato ad accertare i fatti è nell’interesse di tutt3 anche di chi indossa una divisa.
Ciò che stupisce è il messaggio pericoloso che accompagna queste proposte normative, di apparente sostegno alle forze di polizia e di tutela del personale operante. Tuttavia
basta una accurata riflessione su quali siano le reali forme di tutela per il personale delle forze di polizia, per comprendere la portata di una propaganda che in realtà mette a rischio chi ha scelto di fare un lavoro così importante e delicato come quello di operare al fine di garantire la sicurezza pubblica.
Il contesto attuale parla di un contratto di lavoro rinnovato il 18 di dicembre 2024 e già scaduto all’inizio del 2025, con un aumento ben al di sotto della soglia del tasso inflattivo. La carenza di personale oramai cronica, costringe gli operator3 a turni massacranti per sopperire al gap determinato da un turn over insufficiente. Ore di straordinario, il cui ammontare per singola ora già di per sé è ridicolo, che vengono remunerante entro i due anni successivi. Una categoria di lavoro, quella di chi indossa una divisa, ad alto rischio di burn out e suicidio, ma questi dati preoccupanti vengono sistematicamente ignorati da chi dice di voler “difendere” le forze di polizia. Il personale delle forze di polizia e del comparto sicurezza tutto, non ha bisogno di norme che lo allontanino dal resto della cittadinanza in barba al principio di uguaglianza. Ha bisogno di diventare un ponte tra i cittadin3 e le istituzioni, un angolo sicuro a cui potersi rivolgere nei momenti difficili della vita.
Come associazione Lgbtqia+ costituita soprattutto da appartent3 alle forze di polizia, riteniamo assolutamente inutile un disegno di legge che segue un modello di sicurezza meramente repressivo. La sicurezza si garantisce soprattutto e innanzitutto con la prevenzione. Lo riteniamo pericoloso per il personale, sempre più oggetto di strumentalizzazione politica, troppo spesso capro espiatorio per le responsabilità di un governo incapace di rispondere ai bisogni della cittadinanza.
Polis Aperta ha sempre difeso e continuerà a difendere i valori democratici e costituzionali, quali unici principi di tutela e sicurezza di tutta la popolazione.
Si è svolta lo scorso 23 novembre a Roma l’annuale assemblea di Polis Aperta Odv, associazione Lgbtqia+ che riunisce appartenent3 alle forze di polizia e forze armate. Nell’occasione i soc3, present3 sia fisicamente sia attraverso le deleghe, hanno votato eleggere il nuovo consiglio direttivo e la presidenza dell’associazione. A guidare Polis Aperta per il triennio 2024 – 2027 sarà Daisy Melli, giornalista professionista per quasi due decadi agente di Polizia locale a Reggio Emilia. Parzialmente rinnovato anche il Consiglio direttivo con l’ingresso di Leo Paglia, vice presidente, referente per le tematiche transgender e agente di Polizia penitenziaria, Monica Giorgi, Arma dei Carabinieri - segreteria nazionale dell’Usic, consigliera con delega alla gestione dei social e rapporti con l’Arma e Carlo Scovino, scrittore e docente universitario con delega alla formazione. Confermati e confermate all’interno del consiglio con le deleghe rinnovate: Raffaele Brusca, della Polizia di Stato alla segreteria, Simonetta Moro psicologa, appartenete alla Polizia Locale di Bologna sarà tesoriera e Michela Pascali Silp-Cgil avrà la delega ai rapporti istituzionali.
Polis Aperta Odv è un’associazione nata nel 2005 per volontà di alcune persone, omosessuali in divisa, che seguendo l’esempio europeo all’interno dei corpi di polizia di vari paesi europei hanno voluto dar vita ad una associazione fino ad allora impensabile, un organismo che riunisse la comunità Lgbtiqia+ in divisa e che infrangesse il tabù di identità non definite dallo stereotipo eteronormativo all’interno di forze di armate e corpi di polizia. Da allora di strada ne è stata fatta, anche se il cammino è ancora lungo da percorrere. Oggi, infatti, non solo le persone Lgbtqia+ in divisa sono una realtà presente e all’interno di corpi di polizia e forze armate, ma la collaborazione con le Istituzione e la formazione che l’associazione porta avanti, in collaborazione con altre realtà della comunità, rivolta a militari, agenti e civili è l’obiettivo per decostruire l’odio verso l’altro garantendo il rispetto dei valori della Costituzione e di tutte le identità.
Siamo di fronte all’ennesimo pesante attacco alla comunità Lgbtqia+ che non ha altri fini se non la creazione fittizia di un nemico, con la negazione di tutte le identità che non rientrano nel paradigma patriarcale eteronormato. Il Ddl Varchi, approvato in via definitiva dal Parlamento, mette fuori legge le famiglie che si rivolgono alle Gpa anche i stati dove la gestazione per altri è normata e legale. Un provvedimento giuridicamente assurdo e socialmente pericoloso. Un’assurdità secondo il diritto perché alla pretesa di creare un “reato universale” non corrisponde una giurisprudenza in grado di normare ciò che avviene legalmente in altri stati. Pericoloso perché siamo di fronte ad una legge che cela un attacco propagandistico alla comunità Lgbtqia+ il cui chiaro intento è quello di colpevolizzare e mettere all’indice tutte le identità non conformi al loro modello di società. Una visione medioevale che non solo non corrisponde all’attuale spaccato delle società ma che come un boomerang rischia peggiorare il domani di tutti i cittadini e le cittadine. In una società, infatti, dove l’ombra dell’inverno demografico pesa come un macigno sul futuro, chi legifera preferisce punire le minoranze invece di occuparsi di promuovere una reale salute riproduttiva, riformare la legge sulla adozioni consentendole anche a single o coppie Lgbtqia+ e agevolare le plurali forme di famiglie che, di fatto, già esistono all’interno della nostra società e che, ogni giorno, si sperticano fra mille difficoltà per consegnare alle giovani generazioni una società migliore e un futuro degno di questo nome.
Lettera aperta a Davide Bastoni, presidente di Arcigay Lambda e al Comitato del Piacenza Pride 2025
Gentilissimo, cogliamo volentieri la spinta alla riflessione e al dibattito che, come Polis Aperta, abbiamo letto nell’invito rivolto a forze armate e forze di polizia per “marciare al fianco delle comunità Lgbtqia+”. Innanzitutto vorremmo sottolineare che noi non marciamo al fianco della comunità ma siamo, da sempre, parte della comunità Lgbtqia+. Lo siamo nella stessa percentuale in cui lo sono il resto delle categorie professionali di lavoratrici e lavoratori all’interno della società italiana. Certo ci rendiamo conto della particolare delicatezza del lavoro che ogni giorno svolgiamo e della storia, che, anche recentemente, ha portato la nostra comunità a erigere muri di diffidenza nei confronti di chi porta una divisa, tuttavia, arrenderci allo status quo non è nel nostro dna. L’associazione Polis Aperta è nata proprio per la doppia esigenza di non abbandonare alla solitudine “da caserma” le colleghe e i colleghi della comunità e per costruire ponti fra la comunità stessa e le forze di polizia in modo da poter combattere con strategie efficaci i crimini d’odio. Perché la diffidenza nei confronti di chi indossa una divisa induce le vittime al silenzio e il silenzio permette a criminali e malintenzionati di prosperare. E questa non è la società che vogliamo. Ci corre, tuttavia, il dovere di puntualizzare che attualmente in Italia, per legge, nessun appartenente a corpi militari o di polizia può sfilare all’interno di una manifestazione non istituzionale utilizzando la divisa d’ordinanza. Detto ciò, compatibilmente a quanto deciderà il nuovo direttivo che sarà nominato in autunno, l’associazione sarà lieta di prendere parte al Piacenza pride del 2025 con i nostri corpi e i simboli dell’associazione per lottare, come già facciamo in altri Pride, per lo spirito di giustizia che anima chi porta una divisa e per costruire un mondo sempre più vicino a quello descritto dall’Articolo 3 della Nostra Costituzione: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Le dichiarazioni di Riccardo Saccotelli, apparse sulle pagine di Sindacato dei Militari demoliscono la narrazione strumentalizzata, di chi vorrebbe dipingere tutti gli appartenenti a Esercito e Corpi di Polizia come omofobi e propagatori della cultura patriarcale della prevaricazione. Saccotelli carabiniere in congedo, ferito durante l’attentato a Nassiriya che il 12 novembre del 2003 costò la vita a 28 persone tra cui numerosi militari italiani, si è esposto pubblicamente criticando le prese di posizione di alcuni soggetti che, nonostante la presa di distanza dell’Esercito italiano e i provvedimenti di sospensione, nascondendosi dietro gradi e divise vorrebbero ridefinire i criteri di “normalità” spacciando discutibili e antiscientifiche opinioni personali, palesemente in contrasto con i principi Costituzionali, per “verità”.
“Le recenti dichiarazioni del generale Vannacci – ha dichiarato Saccotelli - con cui esterna i suoi singolari criteri di normalità, appaiono estremamente gravi ove si consideri che colpiscono anche la comunità Lgbt presente nelle Forze armate e nelle Forze di polizia. Comunità che è una realtà innegabile, in cui l’essere omosessuali non è mai stato un impedimento per chi, come me, porta sul suo corpo le cicatrici del servizio reso per difendere la Patria e affermare quei principi di democrazia e civiltà che permettono oggi a chiunque di poter manifestare liberamente il proprio pensiero nel rispetto dell’altro”.
(fonte:https://lnx.sindacatodeimilitari.org/riccardo-saccotelli-io-carabiniere-omosessuale-ho-difeso-la-patria-come-vannacci/)
La società italiana è in continua evoluzione e, con essa, anche gli enti che compongono lo Stato e i lavoratori in divisa che ne fanno parte. L’attenzione alle tematiche riguardanti il rispetto delle minoranze, i diritti civili e il gender gap, tutti principi contenuti nella Costituzione Italiana che militari e poliziotti hanno giurato di difendere, ha scatenato il dibattito tra chi si fa portavoce del diritto all’autodeterminazione e una minoranza di soggetti che vorrebbero riportare le lancette dell’orologio indietro di 70 anni diffondendo preconcetti da bar senza alcun fondamento scientifico.
Ebbene Polis Aperta è convinta che il cambiamento in atto non possa essere fermato con meschine strumentalizzazioni. Dentro e fuori le istituzioni i principi di democrazia, pluralità e autodeteminazione non saranno silenziati dalle narrazioni fallaci dei pochi che non riescono a fare i conti con il presente.
L’unico atteggiamento criminale fino ad oggi dimostrato, e scritto nero su bianco da una sentenza del Tar del Piemonte, è quello delle istituzioni che hanno preteso una verifica sull’orientamento sessuale di un lavoratore. Ed è un bene che lo Stato ora debba rispondere anche economicamente di questa palese discriminazione, anche se nessuna somma in denaro potrà mai risarcire la sofferenza psichica e fisica patita da chi si è trovato a lavorare in un ambiente ostile. Al di là della vicenda lavorativa e delle contestazioni disciplinari sull’operato dell’agente, chiarite, come prevede la legge, da un procedimento interno al Corpo e finite, come si legge nella sentenza del tribunale amministrativo piemontese in un nulla di fatto, cercare di mettere in connessione l’idoneità lavorativa con l’orientamento sessuale è una inaccettabile violazione del diritto dei lavoratori di qualunque settore. Un “atto arbitrario e privo di un valido supporto giuridico, oltreché tecnico-scientifico” come riporta la stressa sentenza del Tar, un atto che macchia la divisa che portiamo proprio perché arriva da quello Stato che serviamo e che dovrebbe considerarci tutte persone con pari dignità sociale, eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

